Assemblea Nazionale del 22 Maggio
Istituto S.Orsola, Via Livorno 50 - Roma
1.
UNA
RADICE COMUNE
Pur senza titolo di rappresentanza da
parte di alcuna delle Associazioni con cui è stato iniziato questo percorso, si
sente l’obbligo d‘essere con Voi e di
offrire con spirito responsabile un contributo di riflessione comune e di approfondimento.
Sebbene con tutti i distinguo che
caratterizzano le diverse storie e posizioni (e ce ne sono molti!) si è spinti verso
l’opportunità oggi offerta di esprimere solidarietà e condivisione dei sentimenti che ci
animano tutti.
Nella diversità, un unico
sentimento ci muove, perché vogliamo in fondo la stessa cosa : difendere la nostra Carta
Costituzionale; perché soggettivamente o oggettivamente che sia, la percepiamo in pericolo; perché la
riteniamo rappresentativa della nostra civiltà, della nostra cultura e del
nostro Paese; perché siamo animati dallo stesso imperativo: difendere un Bene
Comune che ci appare compromesso da
fatti recenti e da comportamenti politici o avvenimenti economici e finanziari
che riteniamo disallineati da quanto la stessa Carta Costituzionale avrebbe
richiesto.
Per queste ragioni, pur senza
essere esperti costituzionalisti, ci siamo interrogati e abbiamo trovato chi ha
posto la sua esperienza a servizio di coloro che si pongono le nostre stesse
domande, anche nella diversità delle risposte e degli approcci per i rimedi
necessari.
Se un merito ha avuto questa
crisi che ci attanaglia da diversi anni è l’aver risvegliato in noi tutti un
sentimento assopito nel tempo : l’amore
e la responsabile preoccupazione per il nostro Paese, per il suo futuro nel
Mondo, per ciò che esso rappresenta per ciascuno di noi; per la necessità di
una speranza, specialmente per le generazioni che verranno; per quegli stessi
figli d’Italia che si sono incamminati su percorsi artigianali, professionali ed
intellettuali e oggi sono costretti a migrare non più per un lavoro di rilievo,
ma per la semplice sopravvivenza che l’Italia, purtroppo, non riesce più ad assicurare.
Senza voler polemizzare, c’è da
domandarsi se sia ancora necessaria una
dichiarazione d’indipendenza; perché la storia ci testimonia che essa c’è già
stata. C’è stata con le guerre combattute dai nostri padri per riscattarci da
quei poteri in Europa che per loro convenienza ci hanno sempre voluti “calpesti
e derisi”. C’è stata sulle montagne del Carso per impedire allo straniero il
passaggio del Piave, salvo poi subire una “pace tradita” e sfociare in un
regime che, per mire espansionistiche o per difesa, ci ha comunque ricondotto
in una seconda guerra mondiale che ha visto l’orrore dell’Olocausto e delle
leggi razziali. L’esplicita dichiarazione d’indipendenza c’è già stata con il
sacrificio dei nostri padri che hanno subito con onore la guerra sul fronte
russo o africano, la prigionia e la
deportazione per difendere la nostra terra; c’è stata con il sacrificio di
coloro che per l’incolumità di se stessi e delle proprie famiglie hanno
accettato - pur su fronti opposti - il reclutamento nella Repubblica di Salò
oppure tra le file dei partigiani che hanno animato la Resistenza e la
Liberazione.
Pensiamo di saper bene da dove la
crisi attuale giunge. Ma, forse, non è difficile dire per l’uomo comune se siamo in
questa crisi profonda per le eventuali carenze che la Carta Costituzionale può
aver mostrato nel tempo o se a causa di qualcuno
o qualcosa di più profondo che nel fluire del tempo e nel mutare dei valori ha
mutato natura, sospinto da un interesse individuale che ha fagocitato
l’interesse collettivo, che ha sostituito il conflitto alla ricerca del bene generalizzato , per paura di perdere l’egemonia e i privilegi acquisiti. Eppure i
Padri ce l’hanno lasciato scritto in chiaro nel nostro dna-fondativo:
“Da sempre noi fummo
calpesti e derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi”.
Non è forse proprio questo che
occorre recuperare? La “consapevolezza dell’epoca costituente”, allorquando
l’avversario, nel gioco di una democrazia condivisa, era ritenuto essenziale per il suo ruolo
d’opposizione e comunque stimato per la sua integrità e dedizione nel tendere al
Bene Comune, a prescindere dagli
orientamenti e posizioni nel Parlamento. Occorre recuperare la convinzione che
la provenienza da un credo comunista, liberale o cristiano possa comunque condurre ad agire per il bene di un Popolo in cammino; popolo che guidato
dalla sua millenaria cultura, pur nella frammentarietà, ha di fatto mostrato i
suoi valori nelle sue scelte di fondo, nella capacità di ricostruzione e nel
boom economico; quello della cinquecento e seicento Fiat, della lambretta, dell’Olivetti,
dell’IRI e del perseguimento di un’intrapresa famigliare, evidenziando la straordinaria
produttività di un tessuto di piccole e medie imprese ancora presenti, accanto
ad eccellenze come la Ferrari, la Cogne e la siderurgia nazionale, la chimica e
la farmaceutica di spicco, la ricreata credibilità in Europa che ha permesso di
essere tra i paesi fondatori, prima della CECA, fino a giungere all’odierna UE.
Tutto ciò, sebbene tra le manovre di Gladio da un lato e del KGB dall’altro, ha
mostrato le potenzialità di un popolo che sono man mano state volontariamente
ridimensionate a partire dalla caduta del Muro di Berlino, in nome di un
progetto universalista che pensa di poter fare a meno della democrazia e del
diritto di determinazione dei popoli, dei diritti umani e della solidarietà che necessariamente
sottendeva il progetto di una Società delle Nazioni e di una fratellanza
universale. Siamo così giunti ai nostri giorni e alla necessità di “Ripensare
l’Europa”.
2.
RIPENSARE
L’EUROPA
Ispirata a una visione liberista
che vede nell’intervento dello Stato un’indebita intromissione nel libero
scambio e nella libertà d’impresa necessari all’economia, l’Unione Europea -
evitando accuratamente di riaffermare nella propria Costituzione le proprie
radici giudaico-cristiane - si è strutturata intorno ai concetti di libera
circolazione delle merci, dei capitali, delle persone, dei servizi, del lavoro.
La globalizzazione dei mercati ha
fatto crollare i muri e rimossi i fili spinati eretti dopo Yalta, non solo per
motivi economici e di sovranità su un territorio. Grazie alla diffusione della
tecnologia elettronica ed informatica si è realizzato quel “villaggio globale”
che il sociologo canadese Marshall Mc Lhuan aveva intravisto e predetto
anzitempo.
In oltre mezzo secolo dai
trattati di Roma, nonostante le evidenti potenzialità che un’impostazione
liberoscambista può portare con sé, sono chiaramente emersi i limiti di un
estremismo liberista senza controllo, i quali non hanno però impedito
all’Europa di godere un lungo periodo di pace e di sviluppo, dagli anni dei
primi trattati post-bellici sino ad oggi; cosicché l’Unione Europea si è posta
di fronte al mondo come esempio di speranza per l’umanità tutta.
Allo stesso modo, la “globalizzazione non
governata” ha prodotto acutizzazione delle differenze, crisi
politico-economiche diffuse e sconquassi di ordini preesistenti, mostrando
limiti che non hanno, però, impedito all’umanità di rendersi consapevole
dell’intimo legame a un comune destino su questo pianeta, dove l’azione di una
parte di umanità si ripercuote in modo evidente sull’altra parte; dove le
risorse disponibili devono necessariamente essere condivise senza sprechi in
un’ottica di salvaguardia del creato e a beneficio delle generazioni a venire.
Poi è giunta la crisi del 2008
difficilmente inquadrabile in contesti ciclici dell’economia, ma con una genesi
ben individuabile nella finanza internazionale. Essa, con i suoi connotati
pseudo-strutturali che è venuta man mano assumendo, ha sollevato interrogativi
molto seri sul processo d’integrazione europeo che va avanti dalla fine della
seconda guerra mondiale.
Cosicché i popoli europei - e non
i governi (cosa che ha indotto crisi di rappresentanza nelle politiche
nazionali con aggravamento della sfiducia nelle istituzioni già compromesse) -
hanno incominciato ad interessarsi ed interrogarsi sui risultati del processo
d’integrazione e sulla vera natura della struttura politico-burocratica messa
in piedi a Bruxelles per la costruzione dell’Unione, che peraltro assorbe cospicue risorse. Così gli Europei
hanno scoperto come nonostante sia trascorso mezzo secolo nel lavorio
d’integrazione il Consiglio Europeo continua a somigliare più ad un agglomerato sporadico di Capi di Governo nazionali, piuttosto che ad un Organismo Esecutivo
dell’Unione. Peraltro, il processo decisionale del Consiglio è apparso sbilanciato
dal peso degli interessi dei paesi più “forti” e che “più contano” offuscando
la formazione delle decisioni da assumere in un’ottica di “servizio”, sempre ed
esclusivamente, in funzione del bene comune dei Popoli dell’Unione. Essi hanno
potuto anche constatare come il
Parlamento Europeo eletto attraverso un processo democratico permane
marginale e spesso subordinato ad una Commissione insediata attraverso
“sistemi” percepiti come “poco chiari”, che si prestano a quella facile critica
verso i membri della Commissione:
“maggiordomi scelti per il banchetto delle banche”.
Tenuto conto degli effettivi ed
evidenti risultati conseguiti nella libera circolazione delle persone, i popoli
europei si sono anche interrogati circa il grado d’integrazione che hanno
effettivamente raggiunto e alcuni ritengono di aver scoperto che l’integrazione
effettiva (specie nel campo dei servizi, ma non solo) è oggi più bassa di
quella preesistente negli anni 80 allorquando si aveva come obbiettivo l’Europa
del 92.
Interrogativi ancora più seri li
ha sollevati l’euro; moneta unica adottata dall’Unione Europea senza che si
fosse ancora consolidato il processo unificatore in atto. In molti paesi
dell’Unione – come pure nel nostro - si sono, così, sviluppati consistenti movimenti
politici contrari all’euro e talvolta non solo a questa Europa, bensì contrari
allo stesso ideale di un’Europa Unita. Tali movimenti sono nati oggettivamente,
ancorché dalla strumentalizzazione del malcontento a fini politici, dalla
diffusa percezione di una sorta di “tradimento” delle impostazioni che i Padri
Fondatori dell’Europa (e a questo riguardo riemergono i nomi di tre cattolici :
Adenauer, De Gasperi, Schuman) avevano delineato per quell’Europa cui essi
anelavano in una prospettiva di bene comune. Insomma, oggi s’invoca “un’Europa
dei Popoli e non un’Europa delle banche” mentre si depreca “una moneta senza
Stato, con interi Stati senza moneta”; considerazioni che sempre più spesso si
ascoltano nei discorsi di comuni cittadini, sedicenti “delusi” per la
divaricazione delle differenze prodotte dai tentativi d’integrazione e per la
disattesa perequazione delle diseguaglianze regionali che sarebbe stata,
invece, necessaria.
Appare difficile contestare
opinioni formatesi dinanzi ad una recente mappa monetaria dell’Europa con un
nord a tripla A che induce tensioni nei “paesi barriera” a tripla B, la cui
funzione di “periferia cuscinetto” è apparsa essere quella di argine per
sostenere l’urto, specie migratorio, e non turbare il privilegio del “centro”. Per
di più, se si evidenzia che ad esclusione della Germania, solo i Paesi Membri
dell’Unione che hanno conservato la propria moneta nazionale hanno condizioni
economiche da tripla A, allora diviene comprensibile la critica alla moneta
comune che poggia sulla rivendicazione di una perduta sovranità monetaria
nazionale di cui si incolpa la politica. Questa critica è talvolta mossa, da
movimenti estremisti o nazionalisti, ancor più alla politica europea sostenendo
che i paesi del sud europeo, guarda caso tutti di religione cattolica, li si
vuole necessariamente tenere - attraverso “giochi di finanza internazionale” -
in uno stato di sudditanza economico-finanziaria li dove sono stati collocati.
In questo modo si giunge a “tesi complottiste” che sfociano e si ricongiungono
alle critiche alla globalizzazione, in quanto progetto che punta ad
egemonizzare il potere politico-economico globale attraverso il potere
finanziario e le speculazioni che esso è in grado di operare in sinergia con la
creazione di aree transatlantiche e transpacifiche di libero scambio.
Cosi, in linea con dette tesi,
sotto i colpi della finanza speculativa, le parti più sviluppate si sviluppano
sempre di più e quelle meno sviluppate implodono su se stesse sino alla crisi.
Lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: le politiche di promozione e
sostegno allo sviluppo possono apparire, specie ai più “efficienti”, sempre
insufficienti e dispersive; se non, nel caso peggiore, vengono assimilate ad un
sistema di errato assistenzialismo, che piuttosto di promuovere efficienza ed
attivismo, induce un’irreversibile inedia industriale, costantemente in attesa
della prossima tranche di aiuti dovuti in nome della solidarietà. Ciò, occorre
riconoscerlo, è talvolta già avvenuto proprio da noi con la stessa Cassa del
Mezzogiorno. E simili sentimenti sono stati nutriti qua e là in Europa nel
corso della crisi greca. Ma, non si tratta di assistenzialismo soltanto;
occorre ammettere con onestà l’esistenza di cause che privano i territori in
crisi di disponibilità, di strumenti concreti e di auto-responsabilità nella gestione delle situazioni avverse che
essi stessi non hanno contribuito a determinare.
Guardando invece una mappa
monetaria a livello globale insieme ai dati quantitativi delle riserve
circolanti si nota la scarsa significatività dell’euro rispetto al dollaro e
qualora le tesi complottiste avessero un minimo di fondamento allora “la guerra
delle valute” non sarebbe neanche da combattere, perché è già stata perduta.
Ciò appare evidente anche perché una eventuale leadership europea
presupporrebbe non soltanto “capacità di testa”, che innegabilmente vi sono, ma
anche di “cuore”, che altrettanto innegabilmente non sono affatto emerse nel
corso della crisi greca; in cui un intervento sostanziale in fase iniziale
avrebbe certamente evitata o comunque mitigata la crisi stessa. Abbiamo
assistito, invece, ad esiti in cui – secondo autorevolissimi pareri di politici
nazionali – le diverse tranche di aiuti erogate dall’Europa alla Grecia non
sono andate affatto a sostenere la crisi del Popolo Greco, ma sono servite ad
erogare gli interessi maturati sul debito greco per effetto degli alti tassi di
interesse indotti finanziariamente.
La crisi Greca, dunque, e
soprattutto il problema delle migrazioni, poi, hanno messo e stanno mettendo a
dura prova la coesione dell’UE. Gli inattesi ed imprevedibili movimenti di
masse di migranti rappresentano una sfida in particolare per i paesi europei a
divenire promotori dello sviluppo nelle aree più remote del globo, dove masse
di diseredati (3,5 miliardi, si calcola) vivono a livelli di sussistenza, con
meno di due dollari al giorno, senza accesso all’acqua, all’elettricità ai
servizi essenziali conformi alla dignità umana. In tutto questo, come pure
nella destabilizzazione di governi “autocratici” per sostituirli con governi
“democratici”, si ravvisano le cause di conflitti locali, ma pur sempre
devastanti, che producono milioni di profughi a casa propria e che, insieme
alla disperazione di chi cerca una condizione di vita più dignitosa, alimentano
il flusso di migrazioni sotto i nostri occhi. Queste migrazioni assumono,
quindi, i connotati di una sottile arma di guerra a spese dei poveri del mondo,
che tra lo sfruttamento di mafie organizzate e quello di un sistema economico
che li usa per esercitare una pressione negativa sui salari, fanno sì che ci si
contenda e si generalizzi il lavoro precario o “poco dignitoso”, capace di
offrire solo una misera sopravvivenza.
La distruzione sistematica di
potenzialità industriali, in una sorta di guerra di vicinato, tra nazioni
“civili” e sedicenti “amiche”, si accompagna alle restrizioni al credito da
parte del mondo finanziario. Esso, piuttosto, alimenta se stesso e sfrutta le
tecnologie dell’High Frequency Trading e
privo di ogni controllo da parte degli Stati nazionali, ridotti ormai al
silenzio da una rete multinazionale, ha
fatto un tutt’uno di casse di risparmio, banche commerciali e banche
d’investimento e d’affari, mettendo in difficoltà la vera intrapresa (agricola
industriale, o dei servizi) unica creatrice di ricchezza. In questo contesto le
paure autentiche, indotte o simulate, da parte dei “mercati” sui “debiti
sovrani”, insieme agli strumenti finanziari derivati creati ad arte e la
volatilità dei titoli, divengono strumenti di arricchimento di una élite oltre
che il possibile innesco di crisi globali, mentre anche nelle società più
avanzate si evidenzia una netta diminuzione del monte salari rispetto al PIL,
implicante una marginalizzazione del lavoro nei processi produttivi.
In questo clima generale di
depressione, si è dovuto anche assistere nei paesi colpiti, come il nostro, al
triste fenomeno della disoccupazione intellettuale e giovanile. Nuove
generazioni di giovani e di laureati,
speranza delle loro famiglie e dello Stato che li educano, migrano per avere un
semplice lavoro che dia loro dignità. Eppure in questo clima, misere esistenze
di rifugiati e migranti, divenute oggetto di sfruttamento, sono accolte dalle
Regioni del Sud d’Europa che hanno i loro stessi figli senza lavoro e sempre
più spesso senza futuro. E' evidente che
in tutte le economie più avanzate del mondo, ove si registra una
tendenza stabilizzata di riduzione della quota salari rispetto al PIL, le
classi meno abbienti plaudono ed approvano l'investimento industriale e
avversano o condannano (quando non demonizzano addirittura) l'investimento
finanziario. Ma, perché diminuisce la quota salari rispetto al PIL? E' forse
finito il "lavoro" nel Mondo? Certamente no! Basti pensare a cosa e
quanto c'è bisogno ancora da fare nel campo della protezione e salvaguardia
dell'ambiente, del territorio e del mare; oppure a quanto c'è da fare nel campo
della medicina e assistenza agli anziani ed ai malati; oppure a quanto c'è da
fare nel campo della ricerca scientifica, in particolare sull'energia, in campo
agro-alimentare, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, delle tecnologie
in genere. E' evidente che il Lavoro nel Mondo non può finire! Forse possono
scarseggiare le risorse, ma in questo caso si tratta di usarle in modo più
razionale ed efficiente, nonché procurarle "altrove", foss'anche su
altri pianeti! Allora perché la società umana, e addirittura l’Europa, vive
perennemente una situazione con immensi bisogni insoddisfatti mentre appare
sempre più evidente che quei bisogni si potrebbero soddisfare soltanto se il
Mondo assumesse una diversa prospettiva e diversi valori. Tra questi valori,
per esempio ne abbiamo perduto molti negli ultimi tempi; forse perché mentre da
un lato è rimasto immutato il valore del profitto - anzi si è rafforzato al
punto da diventare "profitto ad ogni costo", esso si è anche
svincolato da ogni regola etica e di buona convivenza. Abbiamo tutti smarrito
non solo il valore, ma addirittura la nozione di “servizio”. In pratica si
vuole qui sostenere che mentre il profitto è certamente valido anche come
misura dell'efficienza con cui si svolgono determinati processi produttivi, non
tutto è riconducibile ad esso, poiché esistono processi che non sono
inquadrabili in un contesto economico e quindi misurabili dal profitto, ma
attengono piuttosto alla sfera delle necessità. Ad esempio, se un asteroide di
1 km di diametro stesse puntando dritto sulla Terra ci sarebbe qualcuno che fermerebbe i
progetti di disintegrazione/deviazione di questo bolide perché non sono
generatori di profitto? Dunque, il vero punto è la necessità di ritrovare un
“equilibrio”, un assetto globale del nostro mondo che tronchi alle radici le
minacce nuove e vecchie e ponga al centro le necessità di ogni comunità umana,
senza distinzione di razza, religione dislocazione territoriale, stadio di
sviluppo. Invece i tempi in cui viviamo, imbrigliati dalle “trappole” di nostra
stessa creazione, ci mettono di fronte a sfide e minacce cui sembriamo non
trovare risposte adeguate.
La terribile minaccia alla pace
rappresentata dall'ISIS alimenta – specie in Europa bersagliata da attacchi
terroristici - un clima di incertezza e di paura che fa richiedere a più
voci interventi efficaci e proporzionati
per mettere i terroristi in condizione di non nuocere; interventi che possono
implicare un’oggettiva restrizione delle libertà personali; un mondo ed uno
stile di vita sempre più insicuro e meno “libero”.
Da più parti s’invoca un
ripensamento profondo delle cause che hanno reso possibile arrivare a tanto.
Ricostruire su basi più giuste le relazioni internazionali non solo in Medio
Oriente è la via maestra per invertire la tendenza intrapresa verso una guerra
senza fine, una guerra fatta a pezzi, il cui puzzle, qualora ricomposto, porta
gli evidenti segni di una terza guerra mondiale. E’ una guerra di
accaparramento e di egemonia, ma non promette nulla di buono per nessuno.
Ma, torniamo al problema dei debiti
sovrani e della crisi, che oggi, a inizio 2016, in molti sostengono sia in
corso di superamento.
Dal 2008 in poi, si può notare la
crescita enorme del debito aggregato UE da circa il 66% del PIL a circa il 92% (nel 2014).
Secondo una regola aurea generale
dell'economia il debito fa questa fine (crescita esponenziale) quando il tasso percentuale di crescita reale
è inferiore al tasso reale di interesse pagato sul debito. In sostanza, se
cresce esponenzialmente il debito (per interessi o per sua vera espansione), o
cresce in maniera altrettanto esponenziale il PIL oppure si è condannati
“ciclicamente” alla crisi dei debiti sovrani, che abbiamo già vissuto.
Ergo, nell’ipotesi di una
maggiore integrazione politica, tutta la UE è in condizioni di insostenibilità
del debito? Il problema si risolve con l'austerità o con la crescita? Le
risorse del pianeta sono in grado di sopportare i ritmi di crescita tenuti
sinora? Il mondo globalizzato può tollerare che crescano ancora i paesi
avanzati o deve spingere in su e sollevare chi è rimasto indietro? Chi
nell'attuale classe politica Italiana, Europea e Mondiale è in grado di
risolvere questo problema? I debiti vanno rimessi come recita la nostra
Preghiera per eccellenza?
Sono questi gli interrogativi di
fondo a cui si attende risposta per poter individuare una soluzione ai problemi
che affliggono oggi l’Europa e quella parte di mondo che guarda ad essa con
speranza.
Sembra quasi di essere condannati
a risolvere un dilemma posto da un’impertinente sibilla ai viandanti che in
questo mondo hanno l’avventura di imbattersi in lei: l’Europa.
La soluzione è la “decrescita
felice” che alcuni propongono e che scontenta una grande fetta dell’umanità, la
quale continua a puntare alla crescita di se stessa ben sapendo che è possibile
solo se crescono anche gli altri (mettendo mano a tutte le risorse
disponibili), oppure è giunto il momento di un cambio di paradigma che porti a
un nuovo modello di sviluppo sostenibile globalmente?
Con un grossolano paragone si
potrebbe dire che il PIL rappresenta per un Paese ciò che il fatturato
rappresenta per un'impresa, quindi - dedotte le spese - il flusso di cassa .
Ma, allora non dovremmo assumere a riferimento per ciascun Paese, sulla
falsariga di quanto si fa anche per le imprese, un conto economico ed uno stato
patrimoniale, che valorizzi ogni singolo pezzo del patrimonio nazionale e tutto
quanto già realizzato in termini di infrastrutture, bellezze artistiche,
paesaggistiche e naturali, sostenibilità e qualità della vita?
Per tutto questo non è forse
necessario un nuovo modello di sviluppo sostenibile che pur senza togliere il
suo valore al PIL , valorizzi anche altri parametri?
Il Magistero Petrino avvertiva
già qualche anno fa : <<Indubbiamente
va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in
un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni della loro sovranità a causa del
nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale>> (D.Petti – Dialogo sulla Politica con
Benedetto XVI – 2013 – Lateran University Press).
Grexit, Brexit, Fixit, sono
acronimi dei media che esprimono, insieme ai movimenti politici esplicitamente
critici versi questa Europa e a quelli antieuropeisti (vedi Polonia, ma non
solo), un fermento di cambiamento che appare improcrastinabile.
Ma, sorgono dubbi che gli stessi
centri nevralgici dell’Europa non propendano per un cambiamento e l’Unione
appare condannata ad una stasi lacerante, che sta compromettendo la sua stessa
sopravvivenza e la sopravvivenza
pacifica del globo.
Si è spesso sostenuto che
l’Europa è apportatrice di pace. E i Popoli Europei s’interrogano ormai anche
su questo.
Basta guardare i conflitti più
recenti in Europa e nel Mediterraneo: l’Ucraina, con la riaccensione degli
storici antagonismi USA – Russia; la Libia, con l’intervento francese (con
ammiccamenti inglesi) e la rottura del locale monopolio nostrano sull’energia;
la Siria , dove si potrebbe usare il monito : “guai a coloro che non si
piegano”; lo storico conflitto tra Turchia e Cipro; lo storico conflitto dell’Area Balcanica (ex
Jugoslavia); ora l’ ISIS non più solo nelle zone rivierasche del Nord-Africa,
ma nel cuore stesso dell’Europa.
E allora: l’Europa è veramente
apportatrice di pace?
Per tutte queste ragioni, ma
particolarmente per quest’ultima, si ripropone qui di seguito una vecchia tesi
sull’Europa. Si tratta di una tesi in "Storia della civiltà e dell'idea
d'Europa" proposta nell’anno
accademico 1980/81, alla conclusione di due anni di corso della SCUOLA
POST-UNIVERSITARIA DI PERFEZIONAMENTO IN STUDI EUROPEI presso l’ISTITUTO A. DE
GASPERI di Roma (in via Poli, 29). Con essa, a quel tempo, si è inteso indagare
sull'Europa e le idee ad essa sottostanti che, in termini problematici,
apparivano analizzabili come il risultato di un processo dinamico evolutivo,
storicamente imposto dal periodo post bellico e che appariva un elemento di
accelerazione di un monopolarismo globale da realizzare; ma, allo stesso tempo
s’incuneava come elemento dirompente tra bi/pluri-polarismi in atto o già
realizzati.
La tesi viene riproposta sia
perché di grande attualità, sia perché già individuava elementi dinamici
evolutivi che lasciavano prefigurare, in un sistema multi-polare, i grossi
blocchi (per es. cinese e islamico) che avrebbero potuto ri-bilanciare l’allora
imperante bipolarismo incentrato su USA-URSS. Evoluzione, questa, che sarebbe
avvenuta non senza rischi di conflittualità nelle periferie all’intorno dei
diversi “centri polari”. In particolare, viene sottolineato, come l’Europa, con
le proprie scelte e la propria riconfigurazione politica, avrebbe determinato
comunque frizioni conflittuali. Ragion per cui l’idea di Europa non poteva che
ridursi a strumento tipico ideale, per aggregare aree sempre più ampie, a
servizio di un monopolarismo da realizzare.
Se questa tesi potrà essere
convincente al punto da essere ritenuta “vera” non sarà più possibile ignorare
ulteriormente le conseguenze cui conduce, specie nell’area mediterranea, che
dovrà necessariamente proiettarsi verso l’Africa e il Medio Oriente in un ruolo
“aggregante” in vista dell’obiettivo finale.
(Per eventuali approfondimenti del caso “Una vecchia tesi
sull’Europa” è disponibile in rete al seguente link:http://www.bioacademyonline.eu/files/europa.pdf) Ma la strada intrapresa,
invece, sembra un’altra Continuiamo l’analisi qui di seguito.
3.
SOMETHING
FOR US
Rinomate Agenzie di Stampa nazionali titolavano proprio agli inizi di
maggio 2016 “Ttip: Greenpeace svela: “Usa tentano di colpire tutele salute Ue -
Nell'ambito del libero scambio di merci, servizi e investimenti fra i due lati
dell'Atlantico”. Ciò accade mentre in una certa parte del laicato cattolico
italiano va sempre più diffondendosi un sommerso dibattito (che viene sommariamente
riportato nel seguito nelle sue diverse interpretazioni) sulle azioni in atto
tra USA e UE per il TTIP (Trattato di Partenariato Transatlantico per il
Commercio e gli Investimenti), un’area di libero scambio tra l’UE e gli USA.
Come di consueto non si
registrano posizioni uniformi. Tra variegate posizioni c’è chi esprime tutta la
contrarietà possibile ad un simile trattato che definisce non solo nefasto per
la democrazia, ma soprattutto uno degli ultimi tasselli di un piano che è
iniziato molto tempo fa, allorquando , Brzezinski, colui che viene considerato un ideatore e
co-fondatore della Commissione trilaterale, scrisse quanto segue nel suo libro
del 1971 “Tra due età: il ruolo degli Stati Uniti nell’era tecnotronica” :
“La Nazione-Stato come unità fondamentale della vita dell’uomo
organizzata ha cessato di essere la principale forza creativa: Le banche
internazionali e le corporazioni transnazionali sono ‘ora’ attori e
pianificatori nei termini in cui un tempo erano attribuiti i concetti politici
di stato-nazione”.
A) Un’aperta interpretazione avversa al TTIP
S’interpreta così, che ciò che si
vuole è un mondo governato dalle banche e dalle corporazioni transnazionali,
una vera e propria dittatura del capitale; e si ritiene che questo è quello che
veramente sta succedendo.
Posizioni di tal genere sono
rafforzate da pareri di altro livello e statura come quelli del premio Nobel
per l'economia Stiglitz quando afferma : "Io spero che i cittadini
dell’Europa rispondano con un sonoro no”. In pratica questi che un tempo si
chiamavano “accordi di libero scambio” oggi sono sempre più spesso considerati
“partnership”. Ma non si tratta di partnership ritenute eque, perché gli Usa
sembra dettino effettivamente i termini.
"Tali
accordi", prosegue Stiglitz, "vanno ben oltre il commercio, regolano
gli investimenti e la proprietà intellettuale e impongono cambiamenti
fondamentali nel quadro normativo, giudiziario e legale dei Paesi, senza il
contributo o il supporto da parte delle istituzioni democratiche”. Quella che è
ritenuta, forse, la parte più odiosa – e disonesta – di tali accordi riguarda
la protezione degli investitori. Gli investitori che vogliono proteggersi
possono acquistare un’assicurazione dalla Multilateral Investment Guarantee
Agency, una società affiliata della Banca Mondiale, mentre gli Stati Uniti e
gli altri governi forniscono una simile assicurazione. Tuttavia, gli Usa
richiedono misure simili nel TPP, anche se molti dei loro “partner” hanno
protezioni sulla proprietà e sistemi giudiziari che sono buoni quanto le loro.
Lo scopo reale di tali misure è inteso come ad ostacolare la salute,
l’ambiente, la sicurezza, e, sì, anche le norme finanziarie vengono intese a
proteggere l’economia e i cittadini americani. Le società possono citare in
giudizio i governi al fine di ottenere un risarcimento per un qualunque calo
dei profitti stimati in futuro, derivante da cambiamenti normativi.”
Non sembra solo una possibilità
teorica. Si racconta, infatti, come Philip Morris abbia intentato causa
all’Uruguay e all’Australia per le loro politiche antifumo. A dire il vero,
entrambi i Paesi sono andati poco più lontani degli Stati Uniti, imponendo di
includere immagini grafiche che mostrano le conseguenze del fumo. Il processo
di etichettatura è all’opera. E sta dissuadendo dal fumare. Così ora Philip
Morris sembra chiedere di essere risarcito per il calo degli utili.
In futuro, prosegue il premio Nobel Stiglitz,
se scopriamo che qualche altro prodotto causa problemi di salute (pensiamo
all’amianto), piuttosto che far fronte a denunce per i costi imposti, il
produttore potrebbe citare in giudizio i governi per averlo trattenuto
dall’uccidere più persone. La stessa cosa può accadere se i nostri governi
impongono norme più ferree per proteggerci dall’impatto delle emissioni di gas
serra.
Fondamentale per il sistema di governo
americano è una magistratura pubblica imparziale, con norme legali costruite
nei decenni, basate su principi di trasparenza, sul precedente e sulla
possibilità di presentare appello contro le decisioni sfavorevoli. Tutto ciò
viene messo da parte, dal momento che i nuovi accordi richiedono arbitrati
privati, non trasparenti e molto costosi.
Inoltre, tale accordo è spesso
pieno di conflitti di interesse; ad esempio, i mediatori possono essere un “giudice”
in un caso e un difensore in un caso correlato. I procedimenti sono così
costosi che l’Uruguay si è dovuto rivolgere a Michael Bloomberg e ad altri
americani ricchi, attivi nel settore della salute, per difendersi da Philip
Morris. E, anche se le società possono intentare causa, altri non possono. Se
c’è una violazione di altre responsabilità – sul lavoro e sulle norme
ambientali, ad esempio – cittadini, sindacati e organizzazioni della società
civile non possono presentare ricorso.
“Se mai ci fosse un meccanismo di risoluzione delle controversie
unilaterale che viola i principi base, è proprio questo. Ecco perché mi sono
unito anch’io ai più importanti esperti legali statunitensi, provenienti da
Harvard, Yale e Berkeley, nello scrivere una lettera al Presidente Barack Obama
che spiega quanto sono dannosi questi accordi per il sistema giudiziario. Se ci
fosse bisogno di una migliore protezione della proprietà, e se tale meccanismo
di risoluzione delle controversie, costoso e privato, fosse superiore alla
magistratura pubblica, dovremmo cambiare la legge non solo per le società
estere benestanti, ma anche per i nostri stessi cittadini e per le piccole
imprese. Ma non c’è stata alcuna proposta a riguardo. La domanda è se dobbiamo
consentire alle ricche aziende di utilizzare misure nascoste nei cosiddetti
accordi commerciali per prescrivere come vivremo nel ventunesimo secolo. Io
spero che i cittadini degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’Asia Pacifico
rispondano con un sonoro no”. conclude Stiglitz.
Questo tipo di interpretazione
non può che condurre a un esplicito NO AL TTIP !
B) Interpretazioni diverse, ma altrettanto
preoccupate
Queste interpretazioni diverse,
ma altrettanto preoccupate, non entrano tanto nel merito delle scelte di
politica economica su cui ci si può legittimamente dividere (per es. dibattito
tra keynesiani e monetaristi, pregi e limiti di economie chiuse ed economie
aperte, ecc.) quanto si fondano sul quadro istituzionale entro il quale tali
cambiamenti avvengono e sul quale pochi tendono a porre attenzione.
Posto che in pochi pensano al
TTIP, la maggior parte di coloro che se ne occupano sembra che ponga più
attenzione su costi e benefici immediati (chi ci perde e chi ci guadagna) che
sul profondo impatto che esso potrà avere sul futuro della democrazia.
Così come “La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. ( S. Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle scienze
sociali, 27 aprile 2001 )" ma dipende dall'uso che se ne fa, così
il TTIP, appare presentare rischi e opportunità.
Così come è strutturato in
partenza, tuttavia, i rischi appaiono superiori alle opportunità in quanto,
come è successo per il fiscal compact, ossia il Il trattato europeo sulla
stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria”,
firmato in occasione del Consiglio europeo dell’1-2 marzo 2012 (cfr.
http://leg16.camera.it/465?area=8&tema=744&Trattato+Fiscal+Compact ), anche con il TTIP, stando alle versioni
disponibili, vengono spossessati di ogni decisione (salvo la ratifica iniziale)
i Parlamenti, cioè gli organismi che (nel bene o nel male) dovrebbero invece
incarnare la sovranità popolare.
In questa interpretazione si
ammette che sicuramente esiste un problema di costi, di efficienza e di
efficacia da affrontare nei parlamenti, ma si ritiene che i mass media negli
ultimi anni si siano prestati e continuino a prestarsi ad una campagna di
demolizione dell'immagine di tali istituzioni proprio per aprire la strada alla
presunta "efficienza" di organismi tecnocratici (che saranno
efficienti ma molto meno trasparenti e partecipati dei parlamenti).
Anche agli osservatori più
critici (e più illustri) sul TTIP sembra sfuggire il problema della creazione
di un meccanismo che si potrebbe adottare in futuro per gli atti di portata
normativa che vincoleranno gli Stati
senza che intervenga alcuna decisione parlamentare. Quindi, senza
volersi pronunciare sul fatto se il TTIP sia foriero o meno di opportunità analoghe a quelle che si
aprirono in Europa col mercato unico - sancito col Trattato CEE del 1957 ma in
pratica rilanciato col "Libro bianco sul completamento del mercato
interno" di Delors del 1985 - qui si vuole sottolinearne la differenza con
il processo di costruzione del mercato interno della CEE, che richiese
centinaia di atti legislativi europei (regolamenti ma, soprattutto, direttive)
co-decisi dal Parlamento europeo mentre gli atti normativi applicativi del TTIP
(modifiche degli allegati, ecc.) saranno decisi da organismi tecnici che non
risponderanno ad alcun parlamento nazionale, europeo o transatlantico.
C ) Necessità di entrare nel merito
In merito al TTIP si afferma che
sia incontrovertibile che la creazione di un’area di libero scambio si
accompagni con una crescita dei commerci e una conseguente crescita del PIL. Ma
questo è sempre vero? Ad alcuni pare che le aree di libero scambio non siano di
per se stesse portatrici di crescita, se non a certe condizioni, (per es. il
PIL italiano, infatti, e non solo, è fortemente diminuito in UE!).
Per quanto possa convenire
all'Italia nelle attuali contingenze, l'implicito obiettivo del TTIP sembra essere
la parità dell'Euro con il Dollaro, cosa
non accettabile da coloro che vogliono un Euro "forte".
Quindi, in aree di libero scambio e con valuta comune non è detto che "una
crescita dei commerci" abbia come conseguenza una crescita del PIL; almeno
per le seguenti ragioni :
1) Nelle economie aperte il PIL
aumenta per effetto commercio solo se è il saldo positivo (export meno
import) con l'estero ad aumentare (vedi
Germania in UE) e sempre di più si comprende che è necessario porre un limite a
tale saldo in aree a valuta comune perché può divenire strumento di politiche
aggressive delle economie più forti verso quelle più deboli. Ma c'è un vincolo
in tal senso nel TTIP? Oppure c'è garanzia di libera fluttuazione di cambi
Euro/Dollaro? E in caso affermativo chi gestirebbe questa politica, la BCE che
non è una vera e propria banca centrale di un Superstato Europeo che ancora non
esiste?
2) Occorre ricordare che la
teoria monetaria moderna ci dice che un deficit di bilancio significa ricchezza
che lo stato immette verso il settore privato, mentre un surplus di bilancio
significa ricchezza che lo stato ritira dal settore privato. Quindi il pareggio
di bilancio introdotto in costituzione significa che il nostro settore privato
non deve più crescere in ricchezza. Se come accade in UE si pone un limite del
3% all'inflazione e un limite del 3% al deficit di bilancio, ciò equivale a
dire che si sta pianificando una crescita zero in termini reali. In queste
condizioni la competitività relativa dei paesi a libero scambio e valuta comune
(o tendenti alla parità) aumenta solo se ci si mantiene molto al disotto dei
limiti di inflazione imposti (nel nostro caso << + 3%) mentre per i limiti di deficit sul bilancio ci si pone sempre all'estremo
superiore del limite (anche qui = + 3%).
E' proprio per non aver saputo
fare questo "gioco" nel corso
di 15 anni, cosa che invece ha saputo fare molto bene la Germania, che
l’economia italiana (insieme alle circostanze di un Euro forte) ha perso competitività
(per effetto di inflazione differenziale) ed è regredita in occasione di una
crisi internazionale che ha funzionato da innesco, ma che rischia di divenire
strutturale e finalizzata alla decrescita, nel tentativo estremo di riportare -
nel migliore dei casi - equilibrio tra i paesi della Terra e nell'utilizzo
delle risorse ambientali di cui il consumismo ha abusato. Tutto ciò è in
qualche modo impostato, evidenziato e governato nel TTIP? E poi, quali
strumenti avremmo nella presente situazione"? La realtà che appare a molti
è : "Guai ai vinti!" (vedi
http://www.interris.it/2016/02/12/85647/intervento/85647.html ) .
3) Infine se fosse vero che
l'implicito obiettivo del TTIP è la parità dell'Euro con il Dollaro, prima di
attivare nuove aree di libero scambio, non dovremmo aver ben studiato il Ciclo
di Frenkel, che taluni invocano come elemento di disfunzione della stessa UE?
Ma questi sono compiti eminentemente politici e noi non siamo che marginali
rispetto ad essa: la politica che conta!
Insomma, c'è da chiedersi se il
TTIP verso l'UE non sia un modello
aggregativo finalizzato al piano di un "governo mondiale unico", che
se da un lato è strumento per la costruzione del "Regno", dall'altro
può essere garanzia di Giustizia e di Pace solo dipendentemente dagli
orientamenti di chi ne sarà il "il Re"; e ad oggi non è automatico
che il "Re" sarà un "re buono ed illuminato".
D) In conclusione:
Sono proprio le previsioni del vecchio Brzezinski che osserva un’EU
inconcludente e ancora ferma su vecchi schemi e teorizza ormai un nuovo assetto
“bipolare-plus” (G-2 plus : USA-CINA più altre economie marginali, EU e Russia
comprese tra esse) che ci avverte :
I social media sono divenuti
strumento per costituire fascicoli ben precisi sull’orientamento di organismi
sociali e individuali, e i maggior utenti a tale riguardo sembrano essere USA e
INDIA.
Forti di ciò, sull’altro lato
dell’Atlantico ci si interroga sulla percezione degli USA nel Mondo e aldilà
della Gran Bretagna che viene considerato il miglior alleato degli Stati Uniti,
la Germania e l’Italia, con le proprie forti relazioni con la Russia sono viste
come problematiche, perché portano acqua al mulino di chi non può divenire,
secondo Brzezinski, centro polare in Eurasia. In ogni caso, poiché in Italia
sembra che il 66% sia sempre favorevole agli USA e piuttosto che subire di
nuovo la penalizzazione di un euro sopravvalutato c’è chi fa affidamento che il
Paese opterebbe più volentieri per divenire parte di una 51esima stelletta –
pur se marginale e dislocata - della bandiera americana. Tutto ciò accade
mentre in Italia un esercito di 2,5 milioni di giovani (prevalentemente
laureati e diplomati) sono disoccupati ed in parallelo magnati cinesi – facendo
dumping ambientale e sui diritti umani - portano annualmente migliaia di propri
dipendenti in vacanza in Europa pagandone i costi e consolidando le basi del
consenso interno della politica espansiva cinese.
Vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole e più non dimandare! Ma, …
4.
IL
PROBLEMA DEMOGRAFICO E LA RESPONSABILITA’ GLOBALE DI AFFRONTARLO
Papa Francesco in un certo
momento del suo pontificato aveva iniziato ad affrontate più in concreto il
tema della paternità consapevole; ma al laicato in ascolto è parso solo un
breve e sfuggente cenno. Quindi la domanda si pone di necessità : “SIAMO
VERAMENTE CONSAPEVOLI DELLA DRAMMATICITÀ DEL PROBLEMA DEMOGRAFICO MONDIALE?”.
Recentissimi studi dimostrano che
l'attesa stabilizzazione della popolazione mondiale è molto controversa e anzi
entro questo secolo con probabilità intorno all'80% la popolazione mondiale
raggiungerà un totale compreso tra 9,5 e 11 miliardi di persone.
Si pone quindi un problema di
sostenibilità per le risorse idriche, energetiche, ambientali e finanziarie che
può condurre a compromettere la vita sul pianeta e portare alla povertà
generalizzata, se non vengono intrapresi adeguati provvedimenti immediati,
visto che 3,5 miliardi vivono già con 2 dollari al giorno, non hanno accesso
all'acqua e all'elettricità se non in modo molto limitato o niente affatto.
Le migrazioni verso paesi più
sviluppati non risolvono per nulla il problema poiché ai tassi di crescita
attuali le migrazioni possono mitigare, quindi assorbire, al più 15 milioni di
nuovi poveri, mentre ogni anno si aggiungono alla popolazione mondiale più
povera dai 50 ai 60 milioni di nuovi poveri.
5.
CHIESA
E GLOBALIZZAZIONE - La Profezia di Francesco :"Noi siamo profeti di un
futuro che non ci appartiene"
Un saggio di Gennaro Acquaviva su
“Mondoperaio” del 1/2016 ci parla de "La profezia di Francesco",
sostenendo che "Era la stessa tradizione gesuita incarnata nel nuovo Papa
ad indicare implicitamente a tutti che egli era di fronte al compito di
riguardare il primato petrino incarnato nel Vescovo di Roma con gli occhi
dell’universalismo e della modernità".
Il saggio ci ricorda alcune
espressioni chiave del Papa:
“Dobbiamo tornare al Vangelo, perché la Chiesa non è al mondo per
condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la
misericordia di Dio”;“Niente di ciò che facciamo è completo. Nessun programma
compie in pieno la missione della Chiesa. Nessuna meta né obiettivo raggiunge
la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno
nasceranno. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione
l’iniziarlo. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene”.
Il saggio è la premessa per analizzare
le "conseguenze che la incessante predicazione di questo Papa, e la sua
azione pastorale e missionaria, hanno innescato nella condizione spirituale
dell’umanità. Come tutti abbiamo potuto constatare si è trattato di un’azione
straordinariamente diffusa, collocata in una dimensione aperta a tutti gli
uomini, e che ha visto prevalere in Francesco la figura di pastore e di guida
spirituale dell’umanità intera assai più che quella di Primate della Chiesa
cattolica romana.".
L’analisi storica individua
chiaramente un’antica ed odierna tendenza universalista del mondo cattolico
guidato da Francesco che è materia di attenta riflessione, nel mondo occidentale
in particolare, al pari della citazione precedentemente riportata di Benedetto XVI: <<Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere
politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni della
loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario
internazionale>>.
Tutto ciò si prospetta
nell’ambito dell’irrisolto apparente antagonismo tra universalismo e particolarismo nazionale. Il primo,
intrinseco alla nozione stessa di cattolicesimo e caratteristico già di una
parte del giudaismo pre-cristiano, e il secondo, retaggio più recente della
formazione degli stati nazionali che sembrano rappresentare un passo obbligato
verso l’ecumenismo cattolico e, più in concreto, verso una unificazione
dell’ecumene sempre più prossima, aldilà dei processi pacifici o conflittuali
sottostanti.
CONCLUSIONI
Un cambio di paradigma nelle
relazioni umane e internazionali si frappone lungo le vie dell’uomo di oggi. Il mutamento è dettato dalla consapevolezza che ogni frazione è parte di un tutto dove
le singole libertà appaiono sempre più
limitate dalle altrui libertà in un sistema in via di integrazione presumibilmente
irreversibile. L’esigenza di richiudersi nuovamente entro i propri autonomi confini
è dettata dalle difficoltà evidenti che l’integrazione sta incontrando tra
egoismi e interessi di parte.
Non possediamo singolarmente
verità intangibili ed immutabili; solo
il dialogo con e verso l’altro sembra poter apportare comprensione; solo la
solidarietà sembra capace di riavviare la crescita; solo la volontà sembra
poter mantenere la pace necessaria ad ogni ulteriore sviluppo , nella
consapevolezza che un comune destino lega indissolubilmente l’intero genere
umano.
In alternativa non vi è che il conflitto,
che necessariamente sfocia nel ricorso alla forza e al confronto delle potenze in
gioco, con il rischio di un annientamento senza vincitori né vinti e l’impossibilità
di migrare altrove perché siamo tutti legati al destino di questa unica e sola Madre
Terra.