venerdì 13 maggio 2016

CHIESA E GLOBALIZZAZIONE - La Profezia di Francesco :"Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene"

Un saggio di Gennaro Acquaviva su “Mondoperaio” del 1/2016 ci parla de "La profezia di Francesco", sostenendo che "Era la stessa tradizione gesuita incarnata nel nuovo Papa ad indicare implicitamente a tutti che egli era di fronte al compito di riguardare il primato pietrino incarnato nel Vescovo di Roma con gli occhi dell’universalismo e della modernità".
Il saggio ci ricorda alcune espressioni chiave del Papa:
Dobbiamo tornare al Vangelo, perché la Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”;“Niente di ciò che facciamo è completo. Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa. Nessuna meta né obiettivo raggiunge la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno nasceranno. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene”.

Il saggio è la premessa per analizzare le "conseguenze che la incessante predicazione di questo Papa, e la sua azione pastorale e missionaria, hanno innescato nella condizione spirituale dell’umanità. Come tutti abbiamo potuto constatare si è trattato di un’azione straordinariamente diffusa, collocata in una dimensione aperta a tutti gli uomini, e che ha visto prevalere in Francesco la figura di pastore e di guida spirituale dell’umanità intera assai più che quella di Primate della Chiesa cattolica romana.".


L'analisi che ne consegue è sviluppata in alcuni saggi e riportata nel seguito estratto dal dossier >>> pietro e francesco di "Mondoperaio" 5/2016.

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>>>> pietro e francesco 

Chiesa e globalizzazione 

>>>>  di Paolo Prodi 


Nel numero di gennaio della rivista ("Mondoperaio") Gennaro Acquaviva, proponendo una valutazione dei primi tre anni del pontificato di Francesco, ha sottolineato alcune problematiche che toccano il tema della riforma del governo papale, inevitabilmente connesse con le caratteristiche innovative proposte dal Papa nella sua predicazione ed azione pastorale. Per approfondire l’argomento riteniamo utile proporre alcuni contributi specialistici. Quello di Paolo Prodi, insigne storico del cristianesimo, sul tema della riforma del Primato petrino; quello di Marco Ventura, professore di diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università di Siena; e quello di Michele Riondino, che illustra i primi atti riformatori del nuovo pontificato che toccano gli enti economico-finanziari della Santa Sede. Ad esse segue una prima riflessione di Gennaro Acquaviva sulle conseguenze italiane della riforma.

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Il punto di partenza e il filo rosso che collega l’impegno e il destino terreno dei vari pontefici lungo i secoli dell’età moderna è stata la esigenza fondamentale di esercitare il ministero petrino (il Petrusamt, cioè il mandato ricevuto da Pietro di custodire mantenere e promuovere l’unità e la comunione di tutte le Chiese nella custodia della verità rivelata) in un mondo che si viene sempre più configurando come quello dei principati e delle monarchie, dei nuovi Stati moderni. Il pericolo massimo che il papato vede di fronte a sé – dopo lo scisma, la fine dell’esperienza conciliarista e della respublica christiana medievale – è quello di un frazionamento delle istituzioni ecclesiastiche all’interno dei nuovi poteri emergenti nelle varie regioni d’Europa: la formazione di Chiese nazionali e territoriali sottoposte ai sovrani. L’esperienza del papato avignonese (di un pontefice ridotto a essere il cappellano dei sovrani) rimane l’ossessione e l’incubo dei papi. É una tensione secolare che caratterizza tutto questo periodo in modo realmente tragico. Non credo si possa comprendere l’ importanza di questa storia senza questa trama di fondo. Ciò che è interessante è cercare di comprendere i singoli momenti, i singoli atti di questo dramma nei successivi contesti temporali. In un primo tempo al centro della politica papale è lo sforzo di costruire uno Stato proprio, di fare delle disperse e sconnesse “terre della Chiesa” un principato rinascimentale coerente sulla base di strutture famigliari (il grande nepotismo), in rapporto con il sistema italiano delle signorie e dei principati: incorrendo quindi nella tentazione (pericolo continuo) di trasformare il papato stesso in una dinastia. Pensiamo non soltanto ai pontefici di casa Medici (Leone X e Clemente VII), ma a tutta la rete di parentele che lega papi, cardinali e prìncipi dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento [1-Per un’ultima sintesi e bibliografia aggiornata v. G. CHITTOLINI, Papato, corte di Roma e stati italiani dal tramonto del movimento conciliarista agli inizi del Cinquecento, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa e G. Cracco, Rubbettino, 2001, pp.191-217.] Uno Stato quindi che in quanto tale possa costituire la base di un nuovo potere universale indipendente, in concorrenza con le potenze emergenti. 
Una volta sconfitto questo modello (il sacco di Roma del 1527 può essere visto come il segno del tramonto), si presenta la sfida della Riforma e dello scisma anglicano: nascono contro l’universalismo di Roma nuovi modelli di Chiese territoriali tra loro molto diversi, ma aventi la comune caratteristica di coincidere con il potere politico degli Stati moderni emergenti. La tesi che ho avanzato molti anni or sono - e che mi sembra essere ancora valida - è che il papato abbia fornito con questo percorso un “prototipo” per le moderne monarchie assolute, con un esempio dell’unione tra potere spirituale e temporale e con la trasformazione della politica stessa da mero atto d’imperio a un nuovo potere che tende a formare e disciplinare l’uomo dalla nascita alla morte. [2- P. PRODI, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982 (a quest’opera rinvio naturalmente per la bibliografia precedente).]
Il prezzo pagato dal papato in questa fase storica non è stato quindi soltanto quello, ben noto e studiato dalla storiografia tradizionale, degli abusi e della corruzione. ma qualcosa di molto più profondo: cioè la fuoriuscita da ogni ipotesi dualistica, con la fondazione di un Tempelstaat che nella sua espressione più coerente e centrale (quella del pontificato di Alessandro VI, il famigerato papa Borgia) ha assunto forme più vicine ad una rinascita del potere e della cultura dell’antico Egitto dei faraoni che non alla proposta teocratica di Bonifacio VIII o alle teorie conciliariste della christianitas nell’autunno del medioevo. [3-Nell’immensa bibliografia il rinvio è soprattutto ai classici studi di W. Ullmann e di F. Oakley. Vedi ora E. CONTE, La bolla “Unam sanctam” e i fondamenti del potere papale fra diritto e teologia, in Mélanges de l’École française de Rome- MoyenÂge, 113 (2001), PP. 663-684. Sul papa Borgia: P. PRODI, Alessandro VI e la sovranità pontificia (in corso di stampa negli Atti del convegno “Alessandro VI e lo Stato della Chiesa”, Perugia, marzo 2000)].
L’azione del papato per la riforma della Chiesa parte quindi in ritardo, e il concilio di Trento può essere convocato e faticosamente concluso con successo nella misura in cui è chiaro l’abbandono da parte dei papi di ogni tentativo di egemonia e di antagonismo sul piano temporale. Il compito principale della riforma cattolica (o della controriforma: non è più il caso di disputare in proposito se si accetta di guardare al fenomeno nelle sue molteplici componenti) mi sembra quindi essere stato, al di là della lotta contro gli abusi e la corruzione interna, quello di garantire alla Chiesa una nuova autorità universale non basata su una concorrenza con gli Stati sul piano politico. Una “confessione” intesa come professione di fede giurata, non soltanto una Chiesa nel senso tradizionale del medioevo: una confessione che non si rinchiude in un ambito territoriale ma che trova nel papato il suo perno per una nuova giurisdizione sulle anime. Per questo il faticoso successo del concilio di Trento, con i suoi decreti dogmatici e i suoi decreti di riforma; per questo la promulgazione della professio fidei tridentina, con il monopolio romano nell’attuazione e nella gestione della disciplina del popolo cattolico [4-Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996 (introduzione)].
 Il punto di partenza ideologico può essere visto nel famoso Libellus ad Leonem X dei camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini, del 1512. Nella nuova età che si apre e nella quale per le nuove scoperte l’Italia appare angustissima e l’Europa stessa non satis lata, al papa è affidato il governo di tutta l’umanità nella diversità dei regimi, delle razze, delle consuetudini e delle stesse religioni: “Totum humanum genus, omnes scilicet gentes, nationes, quae sub coelo sunt, tuae subditas esse potestati”. Ma non in concorrenza con i principati terreni: “Veram autem ecclesiam Dei, non terrenae habitationis civitates, aut manufacta aedificia, sed hominum Congregationem esse te latere non debet”. Il triregno rappresenta iconograficamente, come affermano esplicitamente i due autori, non più il triplice potere elaborato dal papato medievale, ma una realtà nuova, espressione visiva di un potere spirituale che si estende alle terre nuovamente scoperte: l’Italia, l’Europa, il mondo[5-P. GIUSTINIANI - V. QUIRINI, Libellus ad Leonem X, in Annales camaldulenses,IX, Venetiis 1773, coll.614-621.]

La storia moderna del papato è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi 


Nella nuova età che si apre lo sforzo dei pontefici non è quindi più concentrato nell’accrescimento della sovranità (non avremo più pontefici-guerrieri come Giulio II): lo Stato non è più visto come fine a se stesso, ma viene soltanto consolidato come strumento per difendere l’indipendenza stessa del papato nell’Europa ormai divisa dalle guerre di religione; l’Italia stessa, ormai non più al centro della politica europea, diviene una specie di zona grigia allargata sottoposta all’influenza papale senza alcun bisogno di conquiste territoriali. Lo sforzo maggiore dei papi si viene concentrando nella costruzione di un nuovo tipo di sovranità spirituale non territoriale, parallela e distinta rispetto a quella degli altri Stati, secondo le indicazioni teorizzate dal cardinale Roberto Bellarmino nella dottrina del potere indiretto: la Chiesa come societas perfecta alla pari dello Stato. Per questo la storia moderna del papato, dall’attuazione centralizzata delle riforme tridentine alla costituzione Pastor aeternus del Vaticano I e oltre, sino alla metà del secolo XX, è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi. Una sovranità che si attua in modo diretto nei confronti dei fedeli cattolici: con lo spostamento del centro dell’interesse dal campo strettamente dogmatico a quello etico-morale, con la formazione di una organica legislazione e giurisdizione sulle coscienze, della casistica come scienza del comportamento. Non per nulla nei secoli XVII e XVIII il problema cardine negli interventi papali in campo religioso diventa quello della grazia, della giustificazione, e dei fondamenti della morale (pensiamo alle prese di posizione nei riguardi del giansenismo, del lassismo e del quietismo come prima preoccupazione dei pontefici di quest’epoca). Ciò si riflette sul terreno più propriamente politico nell’affermazione di un potere “indiretto” basato su un “corpo” ecclesiastico sovrastatale e sovranazionale, su di una nuova disciplina del clero e delle anime dei fedeli in concorrenza con la legislazione e i poteri statali, nella strenua difesa delle immunità e dei privilegi ecclesiastici di fronte alla politica e al diritto degli Stati assoluti. Il punto centrale di questo cammino, di questo ciclo storico secolare, può essere visto nelle grandi paci di Westfalia, che si concludono nel 1648 con la vittoria del principio cuius regio eius et religio che vincola sostanzialmente anche i paesi rimasti nell’obbedienza romana al principio della territorializzazione delle Chiese, e che vede quindi una sconfitta politica del papato nella sua aspirazione universalistica. Anche i rapporti con gli episcopati sono dominati da questo problema: non penso si possa comprendere la discussione sul rapporto tra centralismo papale e potere episcopale nella Chiesa dell’età moderna prescindendo da questo dramma concreto, che si risolve in una serie infinita di lotte giurisdizionali, in compromessi sanciti o meno nei concordati. Non credo vi possa essere dubbio che ciò ha portato ad un’accentuazione prima non conosciuta della centralizzazione rispetto ad una prassi di comunione e di coordinazione nell’esercizio del mandato apostolico. Per fare soltanto un esempio, penso che nulla testimoni meglio questo processo del confronto tra il concordato del 1516 tra Leone X e Francesco I di Francia (che lascia praticamente al re la mano libera nelle nomine episcopali) e il concordato o convenzione tra il governo francese e Pio VII del 1801, che concede in pratica la nomina dei vescovi al primo Console e obbliga i neo-nominati ad un giuramento le cui clausole sono ancora sostanzialmente quelle in vigore nei secoli dell’antico regime: “Io giuro e prometto a Dio, sui santi Vangeli, di prestare obbedienza e fedeltà al governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica francese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza, di non assistere ad alcun conciliabolo, di non mantenere alcuna lega, sia nell’interno che all’esterno, che sia contraria alla tranquillità pubblica; e se nella mia diocesi ed altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pregiudizio dello Stato , io lo farò sapere al governo”. Non posso qui parlare della storia successiva ma ricordo soltanto che il giuramento di fedeltà dei vescovi è stato abolito in Italia soltanto con la convenzione del 1984.

Le beatificazioni congiunte di Pio IX e di Giovanni XXIII rappresentano certamente
 il riepilogo di un intero periodo storico della storia della Chiesa e del papato


Questi accenni soltanto per dire che la funzione storica del papato nei secoli dell’età moderna è stata quella, nonostante tutti i cedimenti, di difendere l’universalità della Chiesa come istituzione in concorrenza con lo Stato, in un mondo sempre più dominato dalla presenza dello Stato stesso come monopolizzatore di ogni aspetto della vita sociale . Quale sia stato il prezzo che ha dovuto pagare sino ai nostri giorni sul piano delle controversie giurisdizionali e nel compromesso tronoaltare ha costituito il centro dell’interesse della storiografia degli ultimi secoli, e non possiamo qui certo rievocarne la complessità. Certamente la posizione del papato è apparsa sempre più una posizione di retroguardia, una difesa di privilegi e immunità, la resistenza al processo di modernizzazione in un mondo in cui gli Stati, distaccandosi dalla sovranità divina, approdavano alla concezione moderna e razionale della politica, e in seguito anche alle libertà costituzionali, alla democrazia ed alla nuova religione della Patria, territori nei quali il papato non poteva per sua natura interferire. Ma un prezzo altissimo, più nascosto e meno studiato, è stato pagato all’interno della Chiesa stessa per il processo di imitazione dello Stato da parte della Chiesa al suo interno: la persona del prìncipe è entrata in simbiosi con quella del capo della Chiesa, dando un’impronta sempre più segnata da un parallelismo tra le uniche due societates perfectae, sovrane, esistenti sulla terra (particolarmente nell’esaltazione della centralizzazione e della giuridicizzazione), ben oltre il termine cronologico della fine dello Stato pontificio. Quando i governi degli Stati liberali cominciano a rinunciare al controllo laicale delle nomine episcopali – la quarta piaga della Chiesa nella denuncia di Antonio Rosmini – non vi è una ripresa, nel senso da lui auspicato, della tradizione antica: la partecipazione del clero e del popolo viene esclusa, e le nomine rimangono nelle mani del pontefice, confermando la centralizzazione romana.[6 - P. PRODI, Potere politico e nomina dei vescovi: la “quarta piaga” della Chiesa, in Il “gran disegno” di Rosmini. Origine, fortuna e profezia delle “Cinque piaghe della Santa Chiesa”, a cura di M. Marcocchi e F. De Giorgi, Milano 1999, pp. 109-123.
Sul piano del diritto basta pensare alla promulgazione del Codex iuris canonici del 1917, che si inserisce nel processo di codificazione che aveva caratterizzato gli Stati nel secolo precedente. Da questo punto di vista le beatificazioni congiunte di Pio IX e di Giovanni XXIII rappresentano certamente il riepilogo di un intero periodo storico della storia della Chiesa e del papato: l’ultimo percorso di una parabola iniziata molti secoli prima. Un percorso che parte dalla tragedia dell’ ultimo papa-re, che proprio nel momento della rinuncia forzata allo Stato temporale e ai sogni neoguelfi esalta al massimo, nel concilio Vaticano I, la sua “sovranità” sulla Chiesa con la proclamazione del primato di giurisdizione e dell’infallibilità; e che si conclude con la rinuncia da parte di Paolo VI agli ultimi simboli della sovranità con il gesto simbolico della deposizione della tiara sull’altare. Nonostante l’affermarsi della nuova ecclesiologia di comunione nel concilio Vaticano II, non si è modificato il centralismo e la concentrazione dell’esercizio del primato nell’unica figura giuridica del pontefice romano come “vescovo della Chiesa universale” che ha caratterizzato nei secoli dell’età moderna l’esercizio del primato sia all’interno della Chiesa occidentale sia nel rapporto con le Chiese d’oriente. [7-H. POTTMEYER, Le rôle de la papauté au troisième millénaire. Une relecture di Vatican I et de Vatican II, Paris 2001. ]. 
Più in generale penso possano essere confermate anche a proposito del papato le profonde intuizioni dell’ultimo Dossetti su un concilio Vaticano II come ancora inglobato in un regime di “cristianità” che soltanto ora, dopo alcuni decenni, possiamo vedere come storicamente concluso.[8 - G. DOSSETTI, Conversazioni, Milano 1994, Cooperativa culturale Il Dialogo (,pp.21-22 (da una conversazione tenuta al clero della diocesi di Pordenone il 17 marzo 1994))]. Occorreva quindi aspettare la fine dello stesso potere temporale, il tramonto tragico della “persona” del pontefice come princeps saecularis, la maturazione delle idee liberali, perché il discorso potesse incamminarsi faticosamente, negli ultimi due secoli, sulla strada che ha portato alla riconciliazione con il mondo moderno, alla libertà di coscienza e ad un nuovo statuto del cristiano. Ma ora anche quest’epoca, questo ciclo storico della modernità sembra essersi concluso: la stessa espressione “libera Chiesa in libero Stato”, nodo così centrale per la vita religiosa e politica dei nostri padri, sembra appartenere a mondi lontani. La sovranità degli Stati è in gran parte evaporata con la globalizzazione: per lo sviluppo delle nuove reti di comunicazione, delle nuove tecnologie, e soprattutto delle grandi potenze finanziarie – i fondi sovrani – che si identificano e si sovrappongono alle tradizionali grandi potenze territoriali, e sembrano non avere più alcun territorio (anche se le loro decisioni si ripercuotono in pochi istanti sul mondo intero). Così anche le antiche religioni monoteiste – soprattutto ebraismo, cristianesimo, islamismo – ad ogni generazione si distaccano sempre più celermente dalle antiche appartenenza etniche, politiche e culturali. Nessuna Chiesa può essere ai nostri giorni “libera in libero Stato”, come dimostrano tutte le discussioni senza sbocco (che ora non possiamo certo qui aprire) sul tema della laicità. L’epoca che ora si apre impone una riconsiderazione del problema dell’esercizio del primato petrino in un contesto storico molto diverso e per certi versi opposto ai parametri che lo hanno caratterizzato durante i secoli dell’età moderna. L’universalità non deve essere ora più difesa nei confronti degli Stati, che hanno perso gran parte della loro sovranità (anche se naturalmente molti dei problemi del passato rimangono), bensì incarnata storicamente di nuovo nel panorama ancora incerto dell’età della globalizzazione.
Le figure degli ultimi pontefici hanno bene illustrato il passaggio storico che abbiamo di fronte, anche se le risposte sono state sempre parziali negli ultimi decenni: Giovanni Paolo II ha illustrato con la sua attività apostolica e la sua personalità di grande comunicatore a livello planetario la tensione dell’attuale momento ecclesiale sui problemi ancora irrisolti che fanno davvero ritenere sorpassata le nostre visioni anche solo di quarant’anni fa; Benedetto XVI ha cercato di rifondare un nuovo quadro comune nella razionalità occidentale. Ora con papa Francesco si sta veramente affrontando il nucleo del problema, e siamo già, dopo tre anni del suo governo, in un movimento ormai inarrestabile nella sua tensione per adeguare ai nuovi tempi il governo della Chiesa universale. In realtà vi sono mutamenti istituzionali che si sono già introdotti in modo quasi sotterraneo, e che – qualsiasi sia la valutazione che si dà sugli avvenimenti – sono destinati a mutare radicalmente il governo della Chiesa. L’attenzione su di essi è stata quasi nulla da parte di teologi o canonisti, ma non possono sfuggire all’attenzione dello storico. Pensiamo ad esempio alla creazione di diocesi non territoriali, di diocesi senza territorio (la “prelatura personale”): un’innovazione che modifica davvero la storia millenaria che noi eravamo abituati a studiare nel diverso rapporto (verticale e di collegialità) tra il papa e l’episcopato territoriale, un ordinamento riepilogato nella doppia persona del pontefice, vescovo di Roma e pastore della chiesa universale, da cui siamo partiti. Mai i grandi ordini religiosi, pur così importanti e potenti, erano riusciti nel passato ad ottenere uno statuto episcopale, cioè di costituirsi in diocesi senza territorio così come è avvenuto ora per l’Opus Dei e come può avvenire in futuro per altre comunità non legate ad un territorio. Si è detto e scritto tante volte che questo è un papa che è venuto dalla fine del mondo (finis terrae), dalla periferia. Forse è proprio l’opposto: tutto si sta spostando e non vi è più un rapporto centro-perifera (secondo lo schema ereditato dall’impero romano) come fondamento del primato petrino per garantire l’unità della Chiesa: sta nascendo qualcosa di nuovo.

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>>>> pietro e francesco 

La riforma implicita 

>>>> Marco Ventura

Gennaro Acquaviva celebra i tre anni del pontificato di Francesco con un riconoscimento dello straordinario ministero cristiano di papa Bergoglio, “pastore e guida spirituale dell’umanità intera”, e con un interrogativo sulla riforma della Chiesa che da esso potrà scaturire. In questo testo rispondo a ciascuna delle due sollecitazioni: al riconoscimento della svolta e all’interrogativo sui suoi frutti. In un primo tempo collocherò l’annuncio di Cristo di papa Francesco nell’orizzonte descritto da tre grandi processi storici riguardanti la religione in generale e il cattolicesimo in particolare: la spiritualizzazione, la mondializzazione e la cristianizzazione. Spiegherò il significato di ciascuno di questi tre termini e in che senso il pontificato di Francesco mi paia incarnare i tre processi. In un secondo tempo, seguirà la mia risposta all’interrogativo sulla riforma di Francesco. In proposito, farò notare la tensione tra la riforma implicita e la riforma esplicita, ovvero tra la riforma innescata dall’esempio del papa, dal suo stile (e perciò fluida e aperta), e la riforma direttamente operata, in particolare nel governo pontificio ed episcopale e nell’amministrazione dei sacramenti. Concluderò a mia volta con un interrogativo: Francesco sta mutando il cattolicesimo in profondità, oppure il suo annuncio di misericordia, la sua attenzione ad accogliere e facilitare, sono una sofisticata edizione postmoderna del centralismo romano e del suo sistema di potere?[1- Per il retroterra di queste mie riflessioni rinvio a M. VENTURA, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede (Einaudi, 2014).-
La spiritualizzazione, la mondializzazione e la cristianizzazione sono i tre processi storici nei quali ritengo vada collocata l’esperienza pontificia di Bergoglio. Spiegherò brevemente cosa intendo per ciascuno dei tre e in che modo collego i tre processi al pontificato di Francesco, e in particolare al suo annuncio della nascita, morte e risurrezione di Cristo. Con il termine spiritualizzazione designo il percorso storico che muove i credenti in generale e i cristiani in particolare verso le fonti della loro fede e della loro esperienza religiosa. Da quel movimento deriva la tensione a sperimentare autenticamente la propria relazione con il divino, in forma individuale e collettiva. Colloco qui il ruolo decisivo in Francesco dell’individuo e del popolo. Nell’incontro con Cristo l’individuo è il protagonista del peccato, della misericordia, della salvezza. Bergoglio è anzitutto l’uomo che vive la grazia di Dio, e che da pastore la amministra all’altro. In egual modo, il popolo è il protagonista dell’incontro collettivo col divino ed il metro della sua genuina spiritualità. Il cristianesimo di popolo bergogliano, in cui si fondono popolo cristiano e popolo latino-americano, è il simbolo stesso della spiritualizzazione.[2-Nel suo La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Laterza, 2014) Loris Zanatta coglie nella spiritualizzazione del popolo, e nella conseguente costruzione del mito della “nazione cattolica” la radice della tragedia argentina. La mancata distinzione tra la dimensione politica e la dimensione religiosa e ideologica avrebbe funzionato da innesco della guerra civile in cui si plasmò il ministero di Jorge Bergoglio. In proposito rinvio al mio Gesù guerrigliero, Madonna golpista. I due abbagli dell’Argentina cattolica, in La Lettura, 12 ottobre 2014.-]. 
Per la Chiesa di Roma la de-europeizzazione si accompagna alla de-italianizzazione. L’ultimo papa italiano è morto quasi quarant’anni fa In entrambe le dimensioni, individuale e collettiva, gli aspetti politici ed economici, organizzativi e giuridici sono subordinati alla priorità dell’esperienza spirituale. Essi non sono condannati, espulsi. Sono ridimensionati. E con essi sono ridimensionati non solo il governo della Chiesa, la sovranità della Santa Sede, la sua indipendenza finanziaria e organizzativa, ma addirittura la dottrina della fede e la teologia morale: ciò che conta, ciò che viene al primo posto, ciò che definisce l’identità, è la qualità dell’esperienza spirituale. Con il termine mondializzazione designo il percorso storico che ha spostato il baricentro della religione – del cristianesimo e dello stesso cattolicesimo – fuori dall’Europa. Il numero di chi non si riconosce in alcuna religione è in crescita in Europa, e riguarda un quarto della popolazione in paesi come la Francia, l’Olanda e il Regno Unito. Le stime del Pew Research Center [3-Pew Research Center, The Future of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050, 2 aprile 2015, http://www.pewforum.org/2015/04/02/religious-projections-2010- 2050/. Si veda il mio Diventeremo un po’ più monoteisti, in La Lettura, 19 aprile 2015. ] attestano che per il 2050 quasi il 40% dei cristiani del mondo vivrà nell’Africa sub-sahariana. Nel 1910 il 60% dei cattolici del mondo viveva in Europa. Un secolo dopo il numero è sceso al 25%. Nello stesso periodo, la quota di cattolici sudamericani sul totale mondiale è salita dal 25% al 40%. Per la Chiesa di Roma la de-europeizzazione si accompagna alla de-italianizzazione. L’ultimo papa italiano è morto quasi quarant’anni fa. Nel conclave che ha eletto Bergoglio per l’elettorato cardinalizio mondiale non vi erano candidati italiani significativi. La mondializzazione – e la de-europeizzazione – comportano un nuovo modo di parlare della fede e di viverla. I cattolici non europei sono spesso minoranza nel paese in cui vivono, sono più giovani d’età e di storia ecclesiale, raramente godono del supporto dello Stato, pesano meno in politica. L’annuncio cristiano di papa Francesco trasforma un fenomeno demografico e statistico in nuovo contesto dell’incarnazione. Con il termine cristianizzazione raggruppo vari fenomeni di natura diversa riconducibili alla crescita della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. È in controtendenza l’Occidente, dove cresce il numero dei non aff iliati ad alcuna religione (tra essi peraltro, molti rifiutano le chiese e non Cristo): ma in termini assoluti crescono i cristiani nel mondo, e cresce il dinamismo di chiese cui, sempre secondo il Pew Research Center, si convertiranno da qui al 2050 quaranta milioni di persone, quattro volte il numero dei convertiti all’Islam previsti nel medesimo periodo. Le persecuzioni dei cristiani e la popolarità di leader mondiali come papa Francesco, il Patriarca Bartolomeo, Tutu, lo stesso Obama, segnalano la forza di un cristianesimo autorevole e vitale, capace di interagire positivamente con le culture più diverse e di essere seme di non violenza e di pace. 

La profezia di Francesco cammina sul filo della tradizione, e del suo superamento 

La riforma di Francesco è nei suoi gesti, nelle sue parole. Nel suo stile. Le omelie di Santa Marta possono più di un nuovo codice di diritto canonico. La doppia rasatura, il mate, i vecchi amici, le telefonate cambiano più di mille motu proprio. La testimonianza personale è il più potente motore del cambiamento: soprattutto quando si tratta di un papa, nell’era degli idoli di massa e della comunicazione globale. Sappiamo che le norme, le procedure e le istituzioni della Chiesa di Roma ne saranno cambiate. Ma non sappiamo con quale esito. Avvertiamo che dopo i trent’anni dominati dalla teologia e dal governo di Karol Woytila e Joseph Ratzinger – e dopo che la loro stagione ha plasmato la mente e il cuore di un nuovo popolo di fedeli e di un nuovo establishment – siamo ad una svolta. Quanto incisiva, non possiamo sapere. Anche perché non possiamo sapere di quanto tempo disporrà, questa svolta, per plasmare a sua volta le menti e i cuori dei cattolici del futuro. A differenza dei due predecessori, papa Francesco non pare preoccupato di controllare teologia e diritto canonico, di incidere sulla sua Chiesa attraverso la disciplina e la dottrina. Egli si situa altrove, è a suo agio in altre dimensioni. La fluidità e l’apertura della riforma implicita innescata paiono convenirgli, perché convengono al suo senso della profezia. In questa dimensione della riforma, nell’anno del giubileo, sta la “profezia di Francesco” cara a Gennaro Acquaviva. Vi è poi la riforma esplicita, la riforma prodotta. Francesco è anche questo. La sua profezia è anche questo. Francesco ha indetto un sinodo epocale, ha imposto ad esso un sistema di lavoro dalle ricche implicazioni canonistiche rispetto al ruolo del laicato, delle chiese particolari e alla sinodalità e collegialità episcopale. Il pontefice ha anche parlato e fatto molto, esplicitamente, rispetto al proprio ministero petrino: a partire dal suo primo discorso pubblico da vescovo di Roma, la sera dell’elezione. Francesco ha anche fatto valere le proprie prerogative sulla nullità del matrimonio, e cioè, indirettamente, sull’accesso dei divorziati ai sacramenti. La riforma esplicita di papa Bergoglio è già sostanziosa, e controversa. Egli riconosce le prerogative dei vescovi e dei laici, e ne sollecita la responsabilità. Alcune novità collidono con principi consolidati e con mentalità acquisite. La denuncia delle malattie del governo ecclesiastico, ad esempio, nel discorso alla Curia romana di fine 2014 sconfessa un sistema di governo. Alcune competenze dei laici sfidano il nesso tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione. Certe dinamiche episcopali, e l’invito alle chiese particolari sparse nel mondo a decidere per sé con coraggio, sfidano il primato pontificio. La nuova nullità matrimoniale somiglia sempre più a un divorzio. Dopo trent’anni di compattezza teologica e canonica, il nuovo appare discontinuo e incongruo. [4 - Si veda, per la riforma delle nullità matrimoniali, la critica di G. Boni (La recente riforma del processo di nullità matrimoniale. Problemi, criticità, dubbi), in Statoechiese.it, 7 marzo 2016.]. Proprio per questo – perché innova su aspetti cruciali e sensibili, perché si pone in sintonia con i tre processi storici, perché prende rischi – il significato della riforma esplicita operata da Francesco è grande. E non meno espressivo della forza profetica del suo pontificato. Francesco è “profeta di un futuro che non gli appartiene” per ché lo inizia non solo con la sua testimonianza personale, ma anche con le sue riforme esplicite. Quanto è profonda, la profezia di Francesco, quanto è autenticamente rinnovatrice? È questa la domanda cruciale. I critici del Pontefice, dalle diverse posizioni, lo attendono al guado. Dentro la Chiesa di Roma, per i conservatori, il rinnovamento è imponente, reale, e perciò temibile [5-In relazione alla preghiera interreligiosa del 6 gennaio 2016 condotta da Francesco, Mons. Bernard Tissier de Mallerais, vescovo ausiliario della Fraternità San Pio X, ha espresso la propria indignazione e ha condannato nel modo seguente il relativismo del pontefice: “Francesco ha detto esattamente: ‘Molti pensano in modo diverso, sentono in modo diverso, cercano Dio o trovano Dio in diverse modi’. Quindi, poco importa la realtà oggettiva di Dio, l’importante è il feeling, il sentimento di ciascuno riguardo a Dio o alla religione. Ogni uomo si crea un Dio di suo gusto. E papa Francesco non dà alcun giudizio su un tale relativismo, un tale modernismo. Noi abbiamo un papa che lascia che si propaghi la religione su misura di ciascuno. La definisce la “ricerca” della verità. Ma la Verità è una, è Nostro Signore Gesù Cristo, che solo dice: ‘Io sono la Via, la Verità e la Vita’(Giov 14, 6). Solo il Verbo incarnato, l’unico Salvatore degli uomini, è la Verità. La buona volontà di quelli che ignorano ed errano non li salva. La buona volontà non salva nessuno, solo la Verità salva” ( http://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=1765:intervista-con-mons-bernard-tissier demallerais&catid=64&Itemid=81 ).]. Per i riformatori, il rinnovamento non è sufficiente, o è superficiale. Oppure rischia di essere una riforma della curia, a fronte del bisogno di una riforma della Chiesa. [6-Si veda in tal senso S. DIANICH, La Chiesa cattolica verso la sua riforma, Queriniana, 2014.]. Fuori di essa, nelle altre chiese cristiane, è forte il pregiudizio che il cattolicesimo romano di sempre stia solo cambiando pelle: che ciò che conta per Roma, ancora una volta, sia perpetuare il proprio potere spirituale, economico e politico. Il cattolicesimo romano si dimostrerebbe il genere di cristianesimo più capace di intercettare la domanda di spiritualità e di appartenenza, di individualità e di popolo, di coscienza e di norme. Abbracciando omosessuali e divorziati, evangelici e pentecostali, tra un incontro con il Patriarca di Costantinopoli e uno con il Patriarca di Mosca in nome dell’unità dei cristiani davanti alle persecuzioni, il cattolicesimo globalizzato di Bergoglio inghiottirebbe pezzi di cristianità e supererebbe in numero di fedeli l’insieme delle chiese protestanti. Una stagione inclusiva e dialogante sarebbe, in tal senso, una manovra astuta e tempestiva: in perfetta aderenza con lo stereotipo del gesuita. I risentimenti storici sono forti, gli schemi del passato resistono, le sfide del presente sono terribili. A questa prova è atteso Jorge Bergoglio: la profezia di Francesco cammina sul filo della tradizione, e del suo superamento.

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>>>> pietro e francesco 

La lotta alla corruzione 

>>>> Michele Riondino


Sin dalle prime battute del suo ministero papa Francesco ha rivolto una particolare attenzione al tema della tutela del bene comune, e segnatamente agli effetti che la corruzione è in grado di produrre a danno della società. A tale proposito appare opportuno richiamare fin d’ora due pronunciamenti magisteriali del Pontefice presenti in alcuni passaggi della Evangelii gaudium, e successivamente nel discorso rivolto dal Papa alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, ricevuta in Vaticano il 23 ottobre del 2014. Da un punto di vista strettamente normativo – e in linea con la più ampia riforma della Curia Romana più volte annunciata dal Vescovo di Roma – giova inoltre ricordare la riorganizzazione, ad opera di papa Francesco, degli organismi economico-finanziari della Santa Sede che operano nello Stato della Città del Vaticano [1- Cfr. M.J. ARROBA CONDE – M. RIONDINO, Introduzione al diritto canonico, Milano, 2015, pp. 157-161. ]. In poco più di tre anni di pontificato Francesco ha fatto riferimento in forma esplicita al tema della corruzione in circa cinquanta occasioni. Per ragioni di obbligata brevità penso siano degni di nota i richiami presenti nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium, risalente al 24 novembre del 2013. Nel cap. II, e precisamente nel n. 56, il Pontefice richiama – in linea con il Magistero sociale dei suoi predecessori – la disparità tra paesi opulenti e paesi “sempre più distanti dal benessere”. La ragione di ciò si rinviene, in via principale, nel predominio che il “facile denaro” ha avuto sugli uomini; di qui il richiamo al fatto che fenomeni corruttivi, ampiamente presenti nelle diverse realtà sociali, sono strettamente collegati alla carenza di valori universali, quali per esempio il riconoscimento dell’altro come essere umano che si pone in relazione con me e non come strumento per raggiungere “facili guadagni” (n. 55). La crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando si inserisce, purtroppo ed inevitabilmente, come conseguenza della negazione dell’essere umano quale realtà relazionale: papa Francesco rimarca senza esitazione che all’origine dell’attuale crisi finanziaria via sia una “profonda crisi antropologica” che porta gli uni (i più potenti) a prevalere sugli altri (i più deboli). Se privilegiare vie non trasparenti per aumentare i propri beni diviene la regola adottata dalle imprese pubbliche, da quelle private e dal mercato, si finirà per promuovere ancor più palesi squilibri tra diverse realtà, all’interno delle quali coloro che vivono situazioni più critiche sono destinati a soccombere. Evitare che i guadagni di pochi crescano esponenzialmente rispetto alla maggioranza non è esclusivamente un principio morale, bensì un vero pilastro portante di una etica comune che non è prerogativa di una confessione o di un’altra. Contrastare il fenomeno della corruzione in tutte le sue forme significa quindi assumere un “impegno comunitario” (da cui prende il titolo il capitolo), che ricade in via principale su coloro i quali hanno maggiori responsabilità pubbliche, istituzionali o di leadership (n. 58). Il duro monito di papa Francesco ha preso corpo in una riforma normativa sui nuovi organismi economici della Santa Sede Al tema della corruzione papa Francesco dedica ulteriori e puntuali riflessioni. La seconda su cui vorrei soffermare l’attenzione è costituita da una critica ad intra che il Pontefice rivolge ad una “Chiesa mondana” (n. 97). Sarebbe eccessivamente lungo ripercorrere i numerosi pronunciamenti del Papa (soprattutto nelle sue omelie a Santa Marta) in cui non si è mai sottratto dal ribadire come gli atteggiamenti che si identificano con una eccessiva mondanità spesso sono legati ad una carenza di autenticità, e conseguentemente a possibili inclinazioni verso ciò che potrebbe essere poco onesto. Francesco ci ricorda inoltre come tra le situazioni più comuni in ambito economico non sia difficile trovare fenomeni corruttivi mascherati da una qualche apparenza di bene (n. 97). Pensiamo per esempio, e limitatamente alla situazione del nostro paese, ai fenomeni corruttivi e di riciclaggio di denaro proveniente da reato ad opera di associazioni a delinquere di stampo mafioso [2 -A tal proposito, seppur con inspiegabile ritardo, anche l’Italia ha cercato di adeguarsi alla normativa europea e transnazionale in materia. Non possiamo non menzionare alcune tra le modifiche normative introdotte di recente, come per esempio l’istituzione di una Autorità nazionale anticorruzione, istituita con il Decreto legge 90/2014 (poi convertito nella legge n. 114/2014) o le misure di prevenzione introdotte a seguito della entrata in vigore della legge n. 190/2012. ]. Il duro monito di papa Francesco ha preso corpo in una riforma normativa sui nuovi organismi economici della Santa Sede, peraltro già iniziata da Benedetto XVI nel 2010 con l’istituzione dell’Autorità di informazione finanziaria (Aif), a seguito dell’entrata in vigore della lettera data in forma di motu proprio sulla “Prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario” del 30 dicembre del 2010. Per quanto attiene al rapporto tra la Santa Sede e la normativa europea ricordiamo, per esempio, l’istituzione nel 1997, ad opera del Consiglio d’Europa di Moneyval quale organo principale di monitoraggio riconosciuto a livello europeo in materia di contrasto al riciclaggio, cui la Santa Sede ha aderito inoltrando ufficiale richiesta nel 2011, accettata l’anno successivo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa [3-Cfr. A. SARAIS, La valutazione di Moneyval nei confronti della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano in materia di lotta contro il riciclaggio dei capitali ed il finanziamento del terrorismo, in Il Diritto Ecclesiastico 123 (2012), pp. 209-224. ]. Nel discorso rivolto alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale del 23 ottobre del 2014 – dopo aver ribadito la reale necessità di un ripensamento dell’assetto penalistico nei diversi paesi, invitando i giuristi alla missione originaria di ricorrere al sistema sanzionatorio quale extrema ratio, senza dimenticare il fallimento che la giustizia penale tradizionale attraversa da decenni – il Pontefice si sofferma su alcune tipologie di reati sempre più in aumento, richiamando esplicitamente alcuni principi già emersi nella lettera che papa Bergoglio aveva inviato ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’associazione [4-Cfr. L. EEUSEBI, Un’asimmetria necessaria tra il delitto e la pena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale LVII (2014), pp. 1022-1029. ] . 
Nella terza parte del suo discorso il Pontefice fa riferimento a due fattispecie criminose, o tipologie delittuose: la tratta delle persone, con particolare riferimento all’abuso, sfruttamento e commercio di minori ed anziani (non esitando a definirli veri e propri “crimini di lesa umanità” che il più delle volte sono posti in essere anche grazie alla “collaborazione degli Stati”), e la corruzione, dedicando a quest’ultima interessanti riflessioni. 

La risposta sanzionatoria alla corruzione “è come una rete che cattura solo i pesci piccoli” 

Fin dall’incipit del suo discorso papa Francesco ricorda come la “scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con poteri forti”, e – riprendendo il passaggio evangelico dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-8) – afferma che non ci sia cosa più difficile che aprire una “breccia in un cuore corrotto”. Ed è proprio su questa base che il Pontefice sofferma la sua attenzione e ci propone riflessioni che ampliano ed arricchiscono il precedente magistero della Chiesa in tema di bene comune. Dopo aver rammentato che la via privilegiata e più comune alla corruzione coincide con la scelta di “scorciatoie poco lecite” che portano alcuni a considerare gli uomini solo come mezzi utili ai fini di un arricchimento, definisce la corruzione come “un male più grande del peccato” che necessita di essere curato, e non tanto perdonato. Il fatto più drammatico è che il fenomeno della corruzione sia divenuto, negli anni, un fenomeno da molti definito naturale, sino ad arrivare a costituire uno stato personale legato, per esempio, alla non trasparenza nelle transazioni commerciali e finanziarie a tutti gli stadi e livelli. Riferendosi infine in modo più diretto alla platea che aveva di fronte, papa Francesco offre alcuni spunti che potrebbero essere recepiti da molte realtà statuali. Fermo restando l’impegno, in particolare della comunità internazionale, nella lotta alla corruzione perseguita sempre con maggiore incisività con la previsione di maggiore prevenzione o l’aumento delle pene edittali massime previste per coloro che commettono tali illeciti, il Pontefice non manca di sottolineare come, purtroppo, la risposta sanzionatoria continui ad essere troppo spesso selettiva, richiamando una metafora alquanto incisiva: “È come una rete che cattura solo i pesci piccoli”. Non serve spendere molte parole per dire quanto sia urgente perseguire, senza alcuna eccezione e con severità, le forme di corruzione che causano gravi danni sociali, non ultimi quelli di natura economico-finanziaria (pensiamo, ad esempio, ai reati contro la pubblica amministrazione o contro il patrimonio pubblico, oggetto peraltro di continue modifiche da parte di molti ordinamenti statuali). Dai richiami fatti non risulta difficile affermare come il magistero di papa Bergoglio sia alla base dell’impegno di riforma legislativa da lui fortemente voluto ed attuato, in particolare con gli Statuti dei nuovi organismi della Santa Sede. Data la peculiare importanza che oggi ricopre la formulazione di una politica di amministrazione e di controllo programmata in modo razionale e finalizzata a garantire un profilo organizzativo condiviso e funzionale, nei nuovi Statuti trova spazio la previsione esplicita di strumenti che consentano lo sviluppo di indirizzi volti ad una maggiore trasparenza [5- Per una più ampia disamina, cfr. G. DALLA TORRE, Sui nuovi organismi della Santa Sede. Considerazioni generali, in Monitor Ecclesiasticus CXXX (2015), pp. 277-282; C. BEGUS, Sui nuovi organismi della Santa Sede. Cenni di diritto patrimoniale, in Monitor Eccleisasticus CXXX (2015), pp. 289-294; C. PINOTTI, Sui nuovi organismi della Santa Sede. Strutture e competenze, in Monitor Ecclesiasticus CXXX (2015), pp. 283-288 ]. Infatti la pubblicazione degli Statuti di tali nuovi organismi [6-In vigore dal 1° marzo 2015 e facilmente reperibili on line nel sito della Santa Sede] permette di cogliere in modo più chiaro la natura e le finalità in cui si collocano il Consiglio per l’Economia, la Segreteria per l’Economia e l’Ufficio del Revisore Generale. Il nuovo assetto era già stato preannunciato dal Pontefice nella lettera apostolica data in forma di motu proprio “Fidelis dispensator et prudens” del 24 febbraio 2014, dove emergeva l’urgenza di dare alla Chiesa universale una normativa finalizzata a tutelare e gestire con maggiore attenzione i propri beni, finalizzati da sempre al bene comune nella prospettiva dello sviluppo integrale della persona umana. Palese, in proposito, risulta il riferimento alla Dichiarazione di Lima sui principi guida del controllo delle finanze pubbliche del 1977, dove, nel par. II, si ribadisce l’autonomia e l’indipendenza di ogni istituzione superiore di controllo: certamente la Santa Sede, quale soggetto di diritto internazionale, e lo Stato della Città del Vaticano (Scv) hanno inteso recepire, pur nel rispetto delle loro caratteristiche, alcuni tra i principi contenuti nella citata Dichiarazione. Si deve avvertire che con l’istituzione dei nuovi organismi papa Francesco ha voluto affrontare la delicata questione di tutelare e gestire con attenzione i beni (mobiliari ed immobiliari) che appartengono alla Sede Apostolica, nel rispetto della missione di questa e della finalizzazione di quelli a norma dell’ordinamento canonico. Per quanto attiene al profilo nuovo della questione – che consiste in una maggior armonizzazione delle attività economico – finanziarie che fanno capo alla Santa Sede con le richiamate esigenze di trasparenza postulate dagli obiettivi di una gestione finanziaria ed amministrativa etica ed efficientemente orientata conformi con le norme che si sono venute a creare anche in sede internazionale – la riforma voluta da papa Francesco incrementa e completa ciò che già dal 2010 Benedetto XVI aveva attuato. I riferiti Statuti pongono in evidenza che i tre Uffici concorrono, ciascuno secondo le attribuzioni conferite loro e con le definite modalità operative, al perseguimento delle finalità di coordinamento, vigilanza e controllo delle attività amministrative ed economico – finanziarie dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate con la Santa Sede e di quelle che operano nello Stato della Città del Vaticano [7-Cfr. P. CONSORTI, Le riforme economiche di papa Francesco, in Finanze vaticane e Unione europea. Le riforme di papa Francesco e le sfide della vigilanza internazionale, a cura di P. Consorti – E. Bani, Bologna 2015, pp. 7-31.]. 

Prudenza, vigilanza, lealtà e trasparenza, “unite al coraggio
della denuncia”, aiuteranno a debellare la piaga della corruzione 

Da una analisi degli Statuti si evince inoltre, e con maggiore chiarezza, anche la configurazione istituzionale di altre entità che assumono rilevanza per quanto attiene all’attività amministrativa, economica e finanziaria. L’obbligato riferimento va infatti alla già menzionataAif, fortemente voluta da papa Benedetto XVI, i cui rapporti annuali sono consultabili dal 2012 on line, essendo pubblicati sul sito della medesima Autorità. Per quanto attiene al Consiglio per l’Economia (la cui finalità, ex art. 1, consiste nel vigilare sulle strutture amministrative e finanziarie della Santa Sede e dello Scv), gli Statuti non mancano di rammentare come tale funzione debba essere esercitata secondo la Dottrina sociale della Chiesa, con un particolare riferimento alle migliori pratiche riconosciute a livello internazionale in materia di pubblica amministrazione. Le competenze del Consiglio sono delineate, quindi, in modo da esaltare il ruolo strumentale, rispetto alle decisioni del Pontefice, che l’organismo viene ad assumere quale organo deputato alla verifica dei bilanci preventivi annuali della Santa Sede e dello Scv. La nuova architettura è arricchita inoltre dalla previsione normativa volta ad istituire la Segreteria per l’Economia e l’Ufficio del Revisore Generale. La Segreteria, la cui natura è sancita dall’art. 1 dove viene definita come un “dicastero della Curia Romana competente per il controllo e la vigilanza in materia amministrativa e finanziaria”, si colloca in modo subordinato rispetto al Consiglio, in quanto quest’ultimo detiene un potere di direzione e controllo. [8-Opportuna appare inoltre, anche in forza di una più proficua organizzazione e trasparenza, la suddivisione in due distinte sezioni: la Sezione per il Controllo e la Vigilanza (artt. 6-14) e la Sezione Amministrativa (artt. 15-19): la prima finalizzata al monitoraggio delle attività ordinarie dei dicasteri della Curia romana e delle istituzioni collegate alla Santa Sede (art. 8), con una particolare attenzione alle risorse umane, finanziarie e materiali equamente ripartite tra di essi; la seconda finalizzata, in via principale, a porre in atto indirizzi, modelli e procedure in materia di appalti volti ad assicurare che tutti i beni e i servizi necessari alla Santa Sede e alle istituzioni che operano nello Scv siano acquisti nel modo più prudente ed economicamente vantaggioso (art. 15). Entrambe le sezioni sono dirette da un Prelato Segretario Generale, nominato per cinque anni, dal Pontefice (art. 4). ]. Da ultimo, e più marcatamente aderente alle caratteristiche dei cosiddetti “organi di Audit“, trova collocazione l’Ufficio del Revisore generale, che a norma dell’art. 1 dello Statuto è qualificato quale ente della Santa Sede a cui è affidato il compito di revisione dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate alla Santa Sede e di quelle operanti nello Scv. Il Revisore opera in piena autonomia ed indipendenza, seguendo le migliori prassi riconosciute a livello internazionale in materia di pubblica amministrazione, secondo il disposto dell’art. 2. L’art. 6 par. 1 prevede, inoltre, l’integrità, la confidenzialità e la sicurezza delle segnalazioni inerenti ad attività anomale, proteggendo l’identità dei soggetti che effettuano al medesimo Revisore tali segnalazioni. In conclusione, dalla analisi condotta, incentrata sul recente magistero e sulle riforme legislative in tema di contrasto alla corruzione e di tutela del bene comune, emerge come l’impegno assunto da papa Francesco risponda non solo ad una urgenza contingente (illuminata da una continua attenzione ai segni dei tempi) di predisporre modalità più consone, e basate su di una maggiore integrità e trasparenza: bensì ad uno sforzo – in linea con quanto iniziato dai suoi predecessori – di rispondere meglio ai fini naturali e soprannaturali a cui la Chiesa è istituzionalmente preposta, finalità cristallizzate da una tradizione plurisecolare che affonda le sue radici nella Scrittura, nonché nel libro V del Codice di diritto canonico del 1983 sui beni temporali della Chiesa. Alcune settimane fa, a margine di un convegno che si è svolto alla Camera dei Deputati, Frans Timmernans, primo vicepresidente della Commissione europea, ha affermato che “nessuna società cresce se non è comunità”. Ebbene, ancora una volta l’impegno di papa Francesco illumina e guida i difficili passi in avanti, a volte impopolari ed impervi, già intrapresi e quelli che verranno: finalizzati ad operare in vista di una maggiore integrità e trasparenza al servizio della comunità, e di conseguenza del bene di ogni persona. A ciò inevitabilmente si dovranno aggiungere prudenza, vigilanza, lealtà e trasparenza: caratteristiche che, “unite al coraggio della denuncia”, aiuteranno ad evitare anche la pur minima corresponsabilità o complicità di fronte a fenomeni legati alla corruzione, come ha affermato il Pontefice nel n. 19 della Bolla di indizione del giubileo Misericordiae Vultus dell’11 aprile 2015.


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>>>> pietro e francesco 

Il Papa e l’Italia 

>>>> Gennaro Acquaviva


Una premessa: ci interessiamo e torniamo ad interrogarci sul destino del “governo del papa” per quello che siamo, e cioè da socialisti italiani, eredi non solo del “concordatario” Craxi. Lo facciamo in particolare perché è fuori di dubbio che il papato ha avuto e continuerà ad avere un ruolo molto importante in Italia. Il mondo solidale rappresentato da una Chiesa che tuttora cammina pellegrina sulla terra che è la terra di tutti gli italiani non è infatti ancora del tutto impotente o inefficiente rispetto ai problemi ed ai drammi che ci circondano, come sembrano ritenere oggi anche alcuni dei suoi stessi pastori. Il popolo cattolico che qui vive, lavora, prega e opera nella carità è infatti ancora oggi una realtà viva, vitale e decisiva per l’Italia, al cui destino esso è unita attraverso mille fili. La mia convinzione è che, anche se molti nelle sue file sono intimoriti ed incerti di fronte alle difficoltà dell’ora presente, questo popolo cattolico ha il dovere di tornare a ricordarsi che esso è parte essenziale di una comunità di persone che riconosce la politica come la più alta forma di carità per un cristiano. È infatti questa la ragione elementare che ha reso e rende unici (e, ripeto, decisivi) ancora oggi i cattolici nella vicenda sociale e politica del nostro paese: semplicemente perché essi sono – lo vogliano o no, ne siano coscienti o no - una risorsa preziosa per la politica, forse l’unica ancora praticabile, assieme a quella espressa cocciutamente da chi vuole far riemergere, ma soprattutto far vivere, i valori ed i programmi di un socialismo liberale e riformatore. Torniamo dunque ad occuparci del destino di questo popolo di credenti in Gesù Cristo chiamato all’appello del rinnovamento dalla predicazione pastorale e dall’esempio di un papa che - pur se viene “dalla fine del mondo” - ha mostrato di essere portatore di capacità e volontà non tradizionali. Seguendo il percorso da lui indicato ci siamo proposti di confrontarlo con l’equilibrio raggiunto nei secoli passati dal governo del papa, e cioè da un governo romanocentrico oggi obbligatoriamente immerso nell’universalismo dell’impegno planetario della azione della sua Chiesa. Ne è emersa, come prima questione, la necessità di riconsiderare i termini stessi di una riforma del “Primato petrino”, e cioè di quel principio fondante a cui è legata indissolubilmente la funzione del vescovo di Roma nella vita della Chiesa. Abbiamo infine riconosciuto che individuare una sua riforma è questione preliminare e comunque coessenziale all’azione riformatrice: e cioè alla costruzione degli atti successivi destinati a produrre rinnovate fattezze organizzative e gestionali nel governo del papa. Rispetto a questo percorso è parso infine evidente che l’attuazione di questa riforma è destinata a produrre conseguenze anche sulla gestione e funzione della Chiesa italiana, non foss’altro perchè non vi può essere “universalità” senza “romanità”.

 Wojtyla diventa papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi dopo quella di Montini 

Cerco di proporre una spiegazione di questa proposizione finale. Quando, nell’ottobre del 1978, un vescovo polacco titolare della diocesi di Cracovia venne eletto pontefice dopo quasi cinquecento anni di costante preferenza italiana, la preoccupazione che indubbiamente attraversò l’animo di quel conclave nasceva dal fatto che quella antica e venerata tradizione era riconosciuta legittima ed anche utile dall’intera Chiesa universale: e non solo come vincolo geopolitico, ma soprattutto come importante condizione di “facilitazione” nella gestione della sede di Pietro, plasmata appunto per lunghi secoli dalla eccezionale peculiarità di un rapporto che era venuto acquisendo qualcosa di sacrale rispetto ad un luogo, ad una cultura, ad un popolo. Questo legame, evidente lungo molti secoli, era tornato ad apparire di grande attualità proprio in quegli anni che si incrociarono con l’elezione di Giovanni Paolo II. Wojtyla diventa infatti papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi dopo quella di Montini: vicende che oggi ci fanno evocare immediatamente la crisi della Dc, e non solo come tragica metafora. Per molti è infatti ora chiaro che l’esistenza in Italia di un partito cattolico così forte e così pervasivo come era stata la Democrazia cristiana (anche rispetto alle articolazioni più intime della Chiesa), aveva inevitabilmente svolto un ruolo importante nel favorire o nel deprimere la formazione della classe dirigente della Chiesa di Roma. Uno che di queste cose se ne intendeva, Gianni Baget Bozzo, ricordò già nel 1994 una semplice verità: “Non si può valutare la storia della Chiesa in Italia senza considerare come suo maggior risultato proprio l’unità dei cattolici attorno alla Dc. La Dc è parte determinante della realtà della Chiesa in Italia in questi ultimi cinquant’anni. Non c’è altro settore della vita ecclesiale che sia così rilevante e determinante”. E aggiungeva: “La Dc ha svolto nel XX secolo la funzione che gli Stati della Chiesa hanno svolto per millequattrocento anni”. [1- G. BAGET BOZZO, Cattolici e democristiani, Rizzoli, 1994, p. 7. e p. 27.] . Oggi, a quasi quarant’anni da quegli eventi, penso che possiamo serenamente prendere atto anche noi delle consequenzialità allora così realizzatesi, ma anche degli inevitabili sviluppi a cui quelle vicende hanno dato luogo fino al giorno d’oggi. Una parola sullo specifico della Chiesa italiana e del suo governo, la cui condizione vitale (e, diciamo, anche funzionale e organizzativa) ha dovuto reagire (e si è quindi, nel tempo, inevitabilmente dovuta confrontare e plasmare) anche rispetto a questi accadimenti e condizioni post 1978. Possiamo tornare a ricordare sinteticamente i tre momenti che ne hanno indirizzato il percorso: la costituzione (1984-86) della Conferenza episcopale in forma organica e rappresentativa, dotata di mezzi che ne hanno fatto una struttura forte e ben funzionante; la scomparsa della Dc (1994), traumatica per l’insieme della cattolicità italiana; la costante presenza al vertice della Chiesa di un papa non italiano. Il tessuto della cattolicità italiana non solo non sembra oggi in grado di assolvere ad una funzione di sostegno nella riforma del governo papale, ma rischia addirittura di essere ostacolo obiettivo ad un suo utile e proficuo dispiegarsi Sono state queste tre condizioni oggettive che hanno portato alla costruzione delle principali modalità di azione che hanno presieduto all’organizzazione più recente della Chiesa italiana. Esse sono infatti all’origine della stabilizzazione e gestione del nuovo strumento di rappresentanza e di governo rappresentato dalla Cei; e sono sempre esse che hanno dato fondamento a quella che a me sembra essere la sua più significativa caratteristica odierna, tra l’altro fonte di esplicita contraddizione proprio rispetto alle modalità di governo perseguite da Papa Francesco: e cioè l’applicazione costante di un forte principio di centralizzazione, inserito a sua volta in uno schema gerarchizzato e fondamentalmente romanocentrico. Occorre infine ricordare che questo è avvenuto nella permanenza di un consenso effettivo e generalizzato da parte dei vescovi italiani, guidati per quasi vent’anni da un autorevole e abile presidente quale è stato il cardinale Ruini, che ha potuto godere anche di una costante fiducia papale. Per avanzare un giudizio sintetico su questa evoluzione, mi sembra che possiamo riconoscere che si è trattato della costruzione di una intelaiatura pensata per la “navigazione ordinaria” di un vascello che, di contro, si è invece sempre più trovato sospinto entro la eccezionalità di una crisi politica, sociale e culturale che assumeva rilievo e dimensioni epocali: in Italia come in un Occidente in decadenza. Ciò ha prodotto il risultato che - al di sotto di vertici centralizzati che anche per questo sono stati portatori di alta visibilità - il tessuto della cattolicità italiana non solo non sembra oggi in grado di assolvere ad una funzione di sostegno o quantomeno di supplenza nella riforma del governo papale, ma rischia addirittura di essere ostacolo obiettivo ad un suo utile e proficuo dispiegarsi. Non intendo naturalmente tralasciare il fatto che, in tutti questi lunghi quarant’anni, la tradizione cattolica ha continuato a permanere radicata e diffusa nella società italiana: sia nella sua vasta base popolare che nell’infinito apporto di carità concreta, come nella diffusissima e tuttora vitale presenza della sua rete parrocchiale. Ma con quali conseguenze rispetto alla sua tradizione e funzione, interna ed esterna, radicata e fondata su di un retaggio secolare? È proprio un cattolico “figlio di obbedienza” (come lui si professa), Giuseppe De Rita, che ci indica una chiave di lettura condivisibile rispetto a questo quesito. In una recente lettera aperta egli esprime la sensazione “che i vescovi italiani, pur sentendosi partecipi degli sforzi di innovazione del Pontefice, non riescono poi a radicarli nella testa e nell’azione delle tante parrocchie, lasciate spesso alla routine quotidiana se non ad un dubitoso attendismo.” Prosegue De Rita: “Chi, come me, ha vissuto con partecipe convinzione il periodo post-conciliare e ‘montiniano’ della Chiesa italiana ricorda bene che in quel periodo non c’èra vuoto intermedio: i vescovi erano tutti motivati a seguire ed alimentare la linea papale, con un impegno convinto e diffuso delle varie comunità locali (si pensi alle decine e decine di appuntamenti diocesani organizzati fra il ’74 e il ’76, in preparazione al Convegno su Evangelizzazione e Promozione Umana). Poi il governo della Chiesa è diventato carismatico ed a forte verticalizzazione, con un progressivo impoverimento sia delle sedi intermedie che delle comunità locali.” Questo vuoto intermedio non è casuale o transitorio, conclude De Rita: “Non è un episodio congiunturale”. Possiamo far punto qui per quello che ci interessava dire, giunti a questo punto della riflessione. Forse è utile solo aggiungere che la condizione della Chiesa italiana descritta da De Rita costituisce anche un danno grave per la nostra società, come possiamo constatare oggi giorno rispetto allo svolgersi della nostra specifica crisi d’epoca: ma è probabile che essa possa essere un danno o un ostacolo non meno grave anche rispetto al rinnovamento del governo del vertice papale. Non fosse altro perché esso, come abbiamo descritto, è vitalmente ed inevitabilmente collegato con la Chiesa italiana per mille ragioni storiche ed umane, e quindi esposto al rischio costante della crescita ulteriore della tradizionale verticalizzazione nel governo del Vescovo di Roma: il quale è prigioniero, in qualche maniera (pur se indirettamente e certamente involontariamente), dei guasti di una tendenza conservativa che parte di fatto dalla “sua” diocesi e che rischia così di ostacolare la liberazione delle sue migliori energie, certamente presenti, probabilmente ancora all’altezza dell’impegno, e comunque molto utili per tornare a garantire una supplenza ancora storicamente necessaria.

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