Un saggio di Gennaro Acquaviva su “Mondoperaio” del 1/2016 ci parla de "La profezia di Francesco", sostenendo che "Era la stessa tradizione gesuita incarnata nel nuovo Papa ad
indicare implicitamente a tutti che egli era di fronte al compito di riguardare
il primato pietrino incarnato nel Vescovo di Roma con gli occhi dell’universalismo
e della modernità".
Il saggio ci ricorda alcune espressioni chiave del Papa:
“Dobbiamo tornare al Vangelo, perché la Chiesa non è al
mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che
è la misericordia di Dio”;“Niente di ciò che facciamo è completo. Nessun programma
compie in pieno la missione della Chiesa. Nessuna meta né obiettivo raggiunge
la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno
nasceranno. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione
l’iniziarlo. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene”.
Il saggio è la premessa per analizzare le "conseguenze che la incessante predicazione di questo Papa, e
la sua azione pastorale e missionaria, hanno innescato nella condizione
spirituale dell’umanità. Come tutti abbiamo potuto constatare si è trattato di
un’azione straordinariamente diffusa, collocata in una dimensione aperta a
tutti gli uomini, e che ha visto prevalere in Francesco la figura di pastore e
di guida spirituale dell’umanità intera assai più che quella di Primate della
Chiesa cattolica romana.".
L'analisi che ne consegue è sviluppata in alcuni saggi e riportata nel seguito estratto dal dossier >>> pietro e francesco di "Mondoperaio" 5/2016.
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>>>> pietro e francesco
Chiesa e globalizzazione
>>>> di Paolo Prodi
Nel numero di gennaio della rivista ("Mondoperaio") Gennaro Acquaviva, proponendo una valutazione dei primi
tre anni del pontificato di Francesco, ha sottolineato alcune problematiche che toccano il tema
della riforma del governo papale, inevitabilmente connesse con le caratteristiche innovative
proposte dal Papa nella sua predicazione ed azione pastorale. Per approfondire l’argomento
riteniamo utile proporre alcuni contributi specialistici. Quello di Paolo Prodi, insigne storico
del cristianesimo, sul tema della riforma del Primato petrino; quello di Marco Ventura,
professore di diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università di Siena; e quello di Michele
Riondino, che illustra i primi atti riformatori del nuovo pontificato che toccano gli enti
economico-finanziari della Santa Sede. Ad esse segue una prima riflessione di Gennaro
Acquaviva sulle conseguenze italiane della riforma.
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Il punto di partenza e il filo rosso che collega l’impegno e il
destino terreno dei vari pontefici lungo i secoli dell’età
moderna è stata la esigenza fondamentale di esercitare il ministero
petrino (il Petrusamt, cioè il mandato ricevuto da Pietro
di custodire mantenere e promuovere l’unità e la comunione di
tutte le Chiese nella custodia della verità rivelata) in un mondo
che si viene sempre più configurando come quello dei principati
e delle monarchie, dei nuovi Stati moderni.
Il pericolo massimo che il papato vede di fronte a sé – dopo lo
scisma, la fine dell’esperienza conciliarista e della respublica
christiana medievale – è quello di un frazionamento delle istituzioni
ecclesiastiche all’interno dei nuovi poteri emergenti
nelle varie regioni d’Europa: la formazione di Chiese nazionali
e territoriali sottoposte ai sovrani. L’esperienza del papato
avignonese (di un pontefice ridotto a essere il cappellano dei
sovrani) rimane l’ossessione e l’incubo dei papi.
É una tensione secolare che caratterizza tutto questo periodo in
modo realmente tragico. Non credo si possa comprendere l’
importanza di questa storia senza questa trama di fondo. Ciò che
è interessante è cercare di comprendere i singoli momenti, i singoli
atti di questo dramma nei successivi contesti temporali.
In un primo tempo al centro della politica papale è lo sforzo
di costruire uno Stato proprio, di fare delle disperse e sconnesse
“terre della Chiesa” un principato rinascimentale coerente
sulla base di strutture famigliari (il grande nepotismo),
in rapporto con il sistema italiano delle signorie e dei principati:
incorrendo quindi nella tentazione (pericolo continuo) di
trasformare il papato stesso in una dinastia. Pensiamo non
soltanto ai pontefici di casa Medici (Leone X e Clemente
VII), ma a tutta la rete di parentele che lega papi, cardinali e
prìncipi dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento [1-Per un’ultima sintesi e bibliografia aggiornata v. G. CHITTOLINI, Papato,
corte di Roma e stati italiani dal tramonto del movimento conciliarista
agli inizi del Cinquecento, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa
e G. Cracco, Rubbettino, 2001, pp.191-217.] Uno Stato quindi che in quanto tale possa costituire la
base di un nuovo potere universale indipendente, in concorrenza
con le potenze emergenti.
Una volta sconfitto questo modello (il sacco di Roma del
1527 può essere visto come il segno del tramonto), si presenta
la sfida della Riforma e dello scisma anglicano: nascono contro
l’universalismo di Roma nuovi modelli di Chiese territoriali
tra loro molto diversi, ma aventi la comune caratteristica
di coincidere con il potere politico degli Stati moderni emergenti.
La tesi che ho avanzato molti anni or sono - e che mi
sembra essere ancora valida - è che il papato abbia fornito con
questo percorso un “prototipo” per le moderne monarchie
assolute, con un esempio dell’unione tra potere spirituale e temporale e con la trasformazione della politica stessa da
mero atto d’imperio a un nuovo potere che tende a formare e
disciplinare l’uomo dalla nascita alla morte. [2- P. PRODI, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia
papale nella prima età moderna, Bologna 1982 (a quest’opera rinvio
naturalmente per la bibliografia precedente).]
Il prezzo pagato dal papato in questa fase storica non è stato
quindi soltanto quello, ben noto e studiato dalla storiografia
tradizionale, degli abusi e della corruzione. ma qualcosa di
molto più profondo: cioè la fuoriuscita da ogni ipotesi dualistica,
con la fondazione di un Tempelstaat che nella sua
espressione più coerente e centrale (quella del pontificato
di Alessandro VI, il famigerato papa Borgia) ha assunto
forme più vicine ad una rinascita del potere e della cultura
dell’antico Egitto dei faraoni che non alla proposta teocratica
di Bonifacio VIII o alle teorie conciliariste della christianitas
nell’autunno del medioevo. [3-Nell’immensa bibliografia il rinvio è soprattutto ai classici studi di W.
Ullmann e di F. Oakley. Vedi ora E. CONTE, La bolla “Unam sanctam”
e i fondamenti del potere papale fra diritto e teologia, in Mélanges de
l’École française de Rome- MoyenÂge, 113 (2001), PP. 663-684. Sul
papa Borgia: P. PRODI, Alessandro VI e la sovranità pontificia (in corso
di stampa negli Atti del convegno “Alessandro VI e lo Stato della
Chiesa”, Perugia, marzo 2000)].
L’azione del papato per la riforma della Chiesa parte quindi in
ritardo, e il concilio di Trento può essere convocato e faticosamente
concluso con successo nella misura in cui è chiaro l’abbandono
da parte dei papi di ogni tentativo di egemonia e di
antagonismo sul piano temporale. Il compito principale della
riforma cattolica (o della controriforma: non è più il caso di
disputare in proposito se si accetta di guardare al fenomeno
nelle sue molteplici componenti) mi sembra quindi essere
stato, al di là della lotta contro gli abusi e la corruzione interna,
quello di garantire alla Chiesa una nuova autorità universale
non basata su una concorrenza con gli Stati sul piano politico.
Una “confessione” intesa come professione di fede giurata,
non soltanto una Chiesa nel senso tradizionale del medioevo:
una confessione che non si rinchiude in un ambito territoriale
ma che trova nel papato il suo perno per una nuova giurisdizione
sulle anime. Per questo il faticoso successo del concilio
di Trento, con i suoi decreti dogmatici e i suoi decreti di
riforma; per questo la promulgazione della professio fidei tridentina,
con il monopolio romano nell’attuazione e nella
gestione della disciplina del popolo cattolico [4-Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna
1996 (introduzione)].
Il punto di partenza ideologico può essere visto nel
famoso Libellus ad Leonem X dei camaldolesi Paolo Giustiniani
e Vincenzo Quirini, del 1512. Nella nuova età che
si apre e nella quale per le nuove scoperte l’Italia appare
angustissima e l’Europa stessa non satis lata, al papa è
affidato il governo di tutta l’umanità nella diversità dei
regimi, delle razze, delle consuetudini e delle stesse religioni:
“Totum humanum genus, omnes scilicet gentes,
nationes, quae sub coelo sunt, tuae subditas esse potestati”.
Ma non in concorrenza con i principati terreni:
“Veram autem ecclesiam Dei, non terrenae habitationis
civitates, aut manufacta aedificia, sed hominum Congregationem esse te latere non debet”. Il triregno rappresenta
iconograficamente, come affermano esplicitamente i due
autori, non più il triplice potere elaborato dal papato
medievale, ma una realtà nuova, espressione visiva di un
potere spirituale che si estende alle terre nuovamente scoperte:
l’Italia, l’Europa, il mondo[5-P. GIUSTINIANI - V. QUIRINI, Libellus ad Leonem X, in Annales
camaldulenses,IX, Venetiis 1773, coll.614-621.]
La storia moderna del papato è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi
Nella nuova età che si apre lo sforzo dei pontefici non è
quindi più concentrato nell’accrescimento della sovranità
(non avremo più pontefici-guerrieri come Giulio II): lo Stato
non è più visto come fine a se stesso, ma viene soltanto consolidato
come strumento per difendere l’indipendenza stessa
del papato nell’Europa ormai divisa dalle guerre di religione;
l’Italia stessa, ormai non più al centro della politica europea,
diviene una specie di zona grigia allargata sottoposta all’influenza
papale senza alcun bisogno di conquiste territoriali.
Lo sforzo maggiore dei papi si viene concentrando nella
costruzione di un nuovo tipo di sovranità spirituale non territoriale,
parallela e distinta rispetto a quella degli altri Stati,
secondo le indicazioni teorizzate dal cardinale Roberto Bellarmino
nella dottrina del potere indiretto: la Chiesa come
societas perfecta alla pari dello Stato.
Per questo la storia moderna del papato, dall’attuazione centralizzata
delle riforme tridentine alla costituzione Pastor
aeternus del Vaticano I e oltre, sino alla metà del secolo XX,
è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice
come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi. Una
sovranità che si attua in modo diretto nei confronti dei fedeli
cattolici: con lo spostamento del centro dell’interesse dal campo strettamente dogmatico a quello etico-morale, con la
formazione di una organica legislazione e giurisdizione sulle
coscienze, della casistica come scienza del comportamento.
Non per nulla nei secoli XVII e XVIII il problema cardine
negli interventi papali in campo religioso diventa quello della
grazia, della giustificazione, e dei fondamenti della morale
(pensiamo alle prese di posizione nei riguardi del giansenismo,
del lassismo e del quietismo come prima preoccupazione
dei pontefici di quest’epoca). Ciò si riflette sul terreno più propriamente
politico nell’affermazione di un potere “indiretto”
basato su un “corpo” ecclesiastico sovrastatale e sovranazionale,
su di una nuova disciplina del clero e delle anime dei
fedeli in concorrenza con la legislazione e i poteri statali, nella
strenua difesa delle immunità e dei privilegi ecclesiastici di
fronte alla politica e al diritto degli Stati assoluti.
Il punto centrale di questo cammino, di questo ciclo storico
secolare, può essere visto nelle grandi paci di Westfalia, che
si concludono nel 1648 con la vittoria del principio cuius
regio eius et religio che vincola sostanzialmente anche i paesi
rimasti nell’obbedienza romana al principio della territorializzazione
delle Chiese, e che vede quindi una sconfitta politica
del papato nella sua aspirazione universalistica. Anche i rapporti
con gli episcopati sono dominati da questo problema:
non penso si possa comprendere la discussione sul rapporto tra centralismo papale e potere episcopale nella Chiesa dell’età
moderna prescindendo da questo dramma concreto, che
si risolve in una serie infinita di lotte giurisdizionali, in compromessi
sanciti o meno nei concordati.
Non credo vi possa essere dubbio che ciò ha portato ad un’accentuazione
prima non conosciuta della centralizzazione
rispetto ad una prassi di comunione e di coordinazione nell’esercizio
del mandato apostolico. Per fare soltanto un esempio,
penso che nulla testimoni meglio questo processo del confronto
tra il concordato del 1516 tra Leone X e Francesco I di
Francia (che lascia praticamente al re la mano libera nelle
nomine episcopali) e il concordato o convenzione tra il
governo francese e Pio VII del 1801, che concede in pratica
la nomina dei vescovi al primo Console e obbliga i neo-nominati
ad un giuramento le cui clausole sono ancora sostanzialmente
quelle in vigore nei secoli dell’antico regime: “Io giuro
e prometto a Dio, sui santi Vangeli, di prestare obbedienza e
fedeltà al governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica
francese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza,
di non assistere ad alcun conciliabolo, di non mantenere
alcuna lega, sia nell’interno che all’esterno, che sia contraria
alla tranquillità pubblica; e se nella mia diocesi ed
altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pregiudizio
dello Stato , io lo farò sapere al governo”. Non posso qui parlare
della storia successiva ma ricordo soltanto che il giuramento
di fedeltà dei vescovi è stato abolito in Italia soltanto
con la convenzione del 1984.
Le beatificazioni congiunte di Pio IX e di Giovanni XXIII
rappresentano certamente
il riepilogo di un intero
periodo storico della storia della Chiesa e del papato
Questi accenni soltanto per dire che la funzione storica del
papato nei secoli dell’età moderna è stata quella, nonostante
tutti i cedimenti, di difendere l’universalità della Chiesa come
istituzione in concorrenza con lo Stato, in un mondo sempre
più dominato dalla presenza dello Stato stesso come monopolizzatore
di ogni aspetto della vita sociale . Quale sia stato il
prezzo che ha dovuto pagare sino ai nostri giorni sul piano
delle controversie giurisdizionali e nel compromesso tronoaltare
ha costituito il centro dell’interesse della storiografia
degli ultimi secoli, e non possiamo qui certo rievocarne la
complessità. Certamente la posizione del papato è apparsa
sempre più una posizione di retroguardia, una difesa di privilegi
e immunità, la resistenza al processo di modernizzazione in un mondo in cui gli Stati, distaccandosi dalla sovranità
divina, approdavano alla concezione moderna e razionale
della politica, e in seguito anche alle libertà costituzionali,
alla democrazia ed alla nuova religione della Patria, territori
nei quali il papato non poteva per sua natura interferire.
Ma un prezzo altissimo, più nascosto e meno studiato, è stato
pagato all’interno della Chiesa stessa per il processo di imitazione
dello Stato da parte della Chiesa al suo interno: la persona
del prìncipe è entrata in simbiosi con quella del capo
della Chiesa, dando un’impronta sempre più segnata da un
parallelismo tra le uniche due societates perfectae, sovrane,
esistenti sulla terra (particolarmente nell’esaltazione della
centralizzazione e della giuridicizzazione), ben oltre il termine
cronologico della fine dello Stato pontificio.
Quando i governi degli Stati liberali cominciano a rinunciare
al controllo laicale delle nomine episcopali – la quarta piaga
della Chiesa nella denuncia di Antonio Rosmini – non vi è
una ripresa, nel senso da lui auspicato, della tradizione antica:
la partecipazione del clero e del popolo viene esclusa, e le
nomine rimangono nelle mani del pontefice, confermando la
centralizzazione romana.[6 - P. PRODI, Potere politico e nomina dei vescovi: la “quarta piaga” della
Chiesa, in Il “gran disegno” di Rosmini. Origine, fortuna e profezia
delle “Cinque piaghe della Santa Chiesa”, a cura di M. Marcocchi e F.
De Giorgi, Milano 1999, pp. 109-123.]
Sul piano del diritto basta pensare alla promulgazione del Codex iuris canonici del 1917, che si
inserisce nel processo di codificazione che aveva caratterizzato
gli Stati nel secolo precedente.
Da questo punto di vista le beatificazioni congiunte di Pio IX e
di Giovanni XXIII rappresentano certamente il riepilogo di un
intero periodo storico della storia della Chiesa e del papato: l’ultimo
percorso di una parabola iniziata molti secoli prima. Un
percorso che parte dalla tragedia dell’ ultimo papa-re, che proprio
nel momento della rinuncia forzata allo Stato temporale e
ai sogni neoguelfi esalta al massimo, nel concilio Vaticano I, la
sua “sovranità” sulla Chiesa con la proclamazione del primato
di giurisdizione e dell’infallibilità; e che si conclude con la
rinuncia da parte di Paolo VI agli ultimi simboli della sovranità
con il gesto simbolico della deposizione della tiara sull’altare.
Nonostante l’affermarsi della nuova ecclesiologia di comunione
nel concilio Vaticano II, non si è modificato il centralismo
e la concentrazione dell’esercizio del primato nell’unica figura giuridica del pontefice romano come “vescovo della
Chiesa universale” che ha caratterizzato nei secoli dell’età
moderna l’esercizio del primato sia all’interno della Chiesa
occidentale sia nel rapporto con le Chiese d’oriente. [7-H. POTTMEYER, Le rôle de la papauté au troisième millénaire. Une
relecture di Vatican I et de Vatican II, Paris 2001. ].
Più in
generale penso possano essere confermate anche a proposito
del papato le profonde intuizioni dell’ultimo Dossetti su un
concilio Vaticano II come ancora inglobato in un regime di
“cristianità” che soltanto ora, dopo alcuni decenni, possiamo
vedere come storicamente concluso.[8 - G. DOSSETTI, Conversazioni, Milano 1994, Cooperativa culturale Il
Dialogo (,pp.21-22 (da una conversazione tenuta al clero della diocesi
di Pordenone il 17 marzo 1994))].
Occorreva quindi aspettare la fine dello stesso potere temporale,
il tramonto tragico della “persona” del pontefice come princeps
saecularis, la maturazione delle idee liberali, perché il discorso
potesse incamminarsi faticosamente, negli ultimi due secoli,
sulla strada che ha portato alla riconciliazione con il mondo
moderno, alla libertà di coscienza e ad un nuovo statuto del cristiano.
Ma ora anche quest’epoca, questo ciclo storico della
modernità sembra essersi concluso: la stessa espressione “libera
Chiesa in libero Stato”, nodo così centrale per la vita religiosa e
politica dei nostri padri, sembra appartenere a mondi lontani.
La sovranità degli Stati è in gran parte evaporata con la globalizzazione:
per lo sviluppo delle nuove reti di comunicazione,
delle nuove tecnologie, e soprattutto delle grandi potenze finanziarie
– i fondi sovrani – che si identificano e si sovrappongono
alle tradizionali grandi potenze territoriali, e sembrano non
avere più alcun territorio (anche se le loro decisioni si ripercuotono
in pochi istanti sul mondo intero). Così anche le antiche
religioni monoteiste – soprattutto ebraismo, cristianesimo, islamismo
– ad ogni generazione si distaccano sempre più celermente
dalle antiche appartenenza etniche, politiche e culturali.
Nessuna Chiesa può essere ai nostri giorni “libera in libero
Stato”, come dimostrano tutte le discussioni senza sbocco (che
ora non possiamo certo qui aprire) sul tema della laicità.
L’epoca che ora si apre impone una riconsiderazione del problema
dell’esercizio del primato petrino in un contesto storico
molto diverso e per certi versi opposto ai parametri che lo
hanno caratterizzato durante i secoli dell’età moderna. L’universalità
non deve essere ora più difesa nei confronti degli
Stati, che hanno perso gran parte della loro sovranità (anche
se naturalmente molti dei problemi del passato rimangono),
bensì incarnata storicamente di nuovo nel panorama ancora
incerto dell’età della globalizzazione.
Le figure degli ultimi pontefici hanno bene illustrato il passaggio
storico che abbiamo di fronte, anche se le risposte sono
state sempre parziali negli ultimi decenni: Giovanni Paolo II
ha illustrato con la sua attività apostolica e la sua personalità
di grande comunicatore a livello planetario la tensione dell’attuale
momento ecclesiale sui problemi ancora irrisolti che
fanno davvero ritenere sorpassata le nostre visioni anche solo
di quarant’anni fa; Benedetto XVI ha cercato di rifondare un
nuovo quadro comune nella razionalità occidentale. Ora con
papa Francesco si sta veramente affrontando il nucleo del problema,
e siamo già, dopo tre anni del suo governo, in un movimento
ormai inarrestabile nella sua tensione per adeguare ai
nuovi tempi il governo della Chiesa universale.
In realtà vi sono mutamenti istituzionali che si sono già introdotti
in modo quasi sotterraneo, e che – qualsiasi sia la valutazione
che si dà sugli avvenimenti – sono destinati a mutare
radicalmente il governo della Chiesa. L’attenzione su di essi è
stata quasi nulla da parte di teologi o canonisti, ma non possono
sfuggire all’attenzione dello storico. Pensiamo ad esempio alla
creazione di diocesi non territoriali, di diocesi senza territorio
(la “prelatura personale”): un’innovazione che modifica davvero
la storia millenaria che noi eravamo abituati a studiare nel
diverso rapporto (verticale e di collegialità) tra il papa e l’episcopato
territoriale, un ordinamento riepilogato nella doppia
persona del pontefice, vescovo di Roma e pastore della chiesa
universale, da cui siamo partiti. Mai i grandi ordini religiosi,
pur così importanti e potenti, erano riusciti nel passato ad ottenere
uno statuto episcopale, cioè di costituirsi in diocesi senza
territorio così come è avvenuto ora per l’Opus Dei e come può
avvenire in futuro per altre comunità non legate ad un territorio.
Si è detto e scritto tante volte che questo è un papa che è
venuto dalla fine del mondo (finis terrae), dalla periferia.
Forse è proprio l’opposto: tutto si sta spostando e non vi è più
un rapporto centro-perifera (secondo lo schema ereditato dall’impero
romano) come fondamento del primato petrino per
garantire l’unità della Chiesa: sta nascendo qualcosa di nuovo.
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>>>> pietro e francesco
La riforma implicita
>>>> Marco Ventura
Gennaro Acquaviva celebra i tre anni del pontificato di
Francesco con un riconoscimento dello straordinario
ministero cristiano di papa Bergoglio, “pastore e guida spirituale
dell’umanità intera”, e con un interrogativo sulla
riforma della Chiesa che da esso potrà scaturire. In questo
testo rispondo a ciascuna delle due sollecitazioni: al riconoscimento
della svolta e all’interrogativo sui suoi frutti.
In un primo tempo collocherò l’annuncio di Cristo di papa
Francesco nell’orizzonte descritto da tre grandi processi storici
riguardanti la religione in generale e il cattolicesimo in
particolare: la spiritualizzazione, la mondializzazione e la
cristianizzazione. Spiegherò il significato di ciascuno di questi
tre termini e in che senso il pontificato di Francesco mi
paia incarnare i tre processi.
In un secondo tempo, seguirà la mia risposta all’interrogativo
sulla riforma di Francesco. In proposito, farò notare la tensione
tra la riforma implicita e la riforma esplicita, ovvero tra
la riforma innescata dall’esempio del papa, dal suo stile (e perciò
fluida e aperta), e la riforma direttamente operata, in particolare
nel governo pontificio ed episcopale e nell’amministrazione
dei sacramenti. Concluderò a mia volta con un interrogativo:
Francesco sta mutando il cattolicesimo in profondità,
oppure il suo annuncio di misericordia, la sua attenzione ad
accogliere e facilitare, sono una sofisticata edizione postmoderna
del centralismo romano e del suo sistema di potere?[1- Per il retroterra di queste mie riflessioni rinvio a M. VENTURA, Creduli e
credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede (Einaudi, 2014).- ]
La spiritualizzazione, la mondializzazione e la cristianizzazione
sono i tre processi storici nei quali ritengo vada collocata
l’esperienza pontificia di Bergoglio. Spiegherò brevemente
cosa intendo per ciascuno dei tre e in che modo collego
i tre processi al pontificato di Francesco, e in particolare al
suo annuncio della nascita, morte e risurrezione di Cristo.
Con il termine spiritualizzazione designo il percorso storico
che muove i credenti in generale e i cristiani in particolare
verso le fonti della loro fede e della loro esperienza religiosa.
Da quel movimento deriva la tensione a sperimentare autenticamente
la propria relazione con il divino, in forma individuale
e collettiva. Colloco qui il ruolo decisivo in Francesco
dell’individuo e del popolo. Nell’incontro con Cristo l’individuo
è il protagonista del peccato, della misericordia, della salvezza.
Bergoglio è anzitutto l’uomo che vive la grazia di Dio,
e che da pastore la amministra all’altro.
In egual modo, il popolo è il protagonista dell’incontro collettivo
col divino ed il metro della sua genuina spiritualità.
Il cristianesimo di popolo bergogliano, in cui si fondono
popolo cristiano e popolo latino-americano, è il simbolo
stesso della spiritualizzazione.[2-Nel suo La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio
(Laterza, 2014) Loris Zanatta coglie nella spiritualizzazione del
popolo, e nella conseguente costruzione del mito della “nazione cattolica”
la radice della tragedia argentina. La mancata distinzione tra la dimensione
politica e la dimensione religiosa e ideologica avrebbe funzionato da
innesco della guerra civile in cui si plasmò il ministero di Jorge Bergoglio.
In proposito rinvio al mio Gesù guerrigliero, Madonna golpista. I due
abbagli dell’Argentina cattolica, in La Lettura, 12 ottobre 2014.-].
Per la Chiesa di Roma la de-europeizzazione si
accompagna alla de-italianizzazione. L’ultimo
papa italiano è morto quasi quarant’anni fa
In entrambe le dimensioni, individuale e collettiva, gli aspetti
politici ed economici, organizzativi e giuridici sono subordinati
alla priorità dell’esperienza spirituale. Essi non sono condannati,
espulsi. Sono ridimensionati. E con essi sono ridimensionati
non solo il governo della Chiesa, la sovranità della
Santa Sede, la sua indipendenza finanziaria e organizzativa,
ma addirittura la dottrina della fede e la teologia morale: ciò
che conta, ciò che viene al primo posto, ciò che definisce l’identità,
è la qualità dell’esperienza spirituale.
Con il termine mondializzazione designo il percorso storico
che ha spostato il baricentro della religione – del cristianesimo
e dello stesso cattolicesimo – fuori dall’Europa. Il
numero di chi non si riconosce in alcuna religione è in crescita
in Europa, e riguarda un quarto della popolazione in paesi come la Francia, l’Olanda e il Regno Unito. Le stime
del Pew Research Center [3-Pew Research Center, The Future of World Religions: Population
Growth Projections, 2010-2050, 2 aprile 2015,
http://www.pewforum.org/2015/04/02/religious-projections-2010-
2050/. Si veda il mio Diventeremo un po’ più monoteisti, in La Lettura,
19 aprile 2015. ] attestano che per il 2050 quasi il
40% dei cristiani del mondo vivrà nell’Africa sub-sahariana.
Nel 1910 il 60% dei cattolici del mondo viveva in Europa. Un
secolo dopo il numero è sceso al 25%.
Nello stesso periodo, la quota di cattolici sudamericani sul
totale mondiale è salita dal 25% al 40%. Per la Chiesa di
Roma la de-europeizzazione si accompagna alla de-italianizzazione.
L’ultimo papa italiano è morto quasi quarant’anni fa.
Nel conclave che ha eletto Bergoglio per l’elettorato cardinalizio
mondiale non vi erano candidati italiani significativi. La
mondializzazione – e la de-europeizzazione – comportano un
nuovo modo di parlare della fede e di viverla. I cattolici non
europei sono spesso minoranza nel paese in cui vivono, sono
più giovani d’età e di storia ecclesiale, raramente godono del
supporto dello Stato, pesano meno in politica. L’annuncio cristiano
di papa Francesco trasforma un fenomeno demografico
e statistico in nuovo contesto dell’incarnazione.
Con il termine cristianizzazione raggruppo vari fenomeni di
natura diversa riconducibili alla crescita della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. È in controtendenza l’Occidente,
dove cresce il numero dei non aff iliati ad alcuna religione
(tra essi peraltro, molti rifiutano le chiese e non Cristo):
ma in termini assoluti crescono i cristiani nel mondo, e
cresce il dinamismo di chiese cui, sempre secondo il Pew
Research Center, si convertiranno da qui al 2050 quaranta
milioni di persone, quattro volte il numero dei convertiti
all’Islam previsti nel medesimo periodo. Le persecuzioni dei
cristiani e la popolarità di leader mondiali come papa Francesco,
il Patriarca Bartolomeo, Tutu, lo stesso Obama, segnalano
la forza di un cristianesimo autorevole e vitale, capace
di interagire positivamente con le culture più diverse e di
essere seme di non violenza e di pace.
La profezia di Francesco cammina sul filo della tradizione, e del suo superamento
La riforma di Francesco è nei suoi gesti, nelle sue parole.
Nel suo stile. Le omelie di Santa Marta possono più di un
nuovo codice di diritto canonico. La doppia rasatura, il
mate, i vecchi amici, le telefonate cambiano più di mille
motu proprio. La testimonianza personale è il più potente
motore del cambiamento: soprattutto quando si tratta di un
papa, nell’era degli idoli di massa e della comunicazione
globale. Sappiamo che le norme, le procedure e le istituzioni
della Chiesa di Roma ne saranno cambiate. Ma non sappiamo
con quale esito. Avvertiamo che dopo i trent’anni
dominati dalla teologia e dal governo di Karol Woytila e
Joseph Ratzinger – e dopo che la loro stagione ha plasmato
la mente e il cuore di un nuovo popolo di fedeli e di un
nuovo establishment – siamo ad una svolta. Quanto incisiva,
non possiamo sapere. Anche perché non possiamo sapere di
quanto tempo disporrà, questa svolta, per plasmare a sua
volta le menti e i cuori dei cattolici del futuro.
A differenza dei due predecessori, papa Francesco non pare
preoccupato di controllare teologia e diritto canonico, di incidere
sulla sua Chiesa attraverso la disciplina e la dottrina. Egli
si situa altrove, è a suo agio in altre dimensioni. La fluidità e
l’apertura della riforma implicita innescata paiono convenirgli,
perché convengono al suo senso della profezia. In questa
dimensione della riforma, nell’anno del giubileo, sta la “profezia
di Francesco” cara a Gennaro Acquaviva.
Vi è poi la riforma esplicita, la riforma prodotta. Francesco è
anche questo. La sua profezia è anche questo. Francesco ha indetto un sinodo epocale, ha imposto ad esso un sistema di
lavoro dalle ricche implicazioni canonistiche rispetto al ruolo
del laicato, delle chiese particolari e alla sinodalità e collegialità
episcopale. Il pontefice ha anche parlato e fatto molto,
esplicitamente, rispetto al proprio ministero petrino: a partire
dal suo primo discorso pubblico da vescovo di Roma, la sera
dell’elezione. Francesco ha anche fatto valere le proprie prerogative
sulla nullità del matrimonio, e cioè, indirettamente,
sull’accesso dei divorziati ai sacramenti.
La riforma esplicita di papa Bergoglio è già sostanziosa, e
controversa. Egli riconosce le prerogative dei vescovi e dei
laici, e ne sollecita la responsabilità. Alcune novità collidono
con principi consolidati e con mentalità acquisite. La
denuncia delle malattie del governo ecclesiastico, ad esempio,
nel discorso alla Curia romana di fine 2014 sconfessa
un sistema di governo. Alcune competenze dei laici sfidano
il nesso tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione.
Certe dinamiche episcopali, e l’invito alle chiese
particolari sparse nel mondo a decidere per sé con coraggio,
sfidano il primato pontificio. La nuova nullità matrimoniale
somiglia sempre più a un divorzio.
Dopo trent’anni di compattezza teologica e canonica, il nuovo
appare discontinuo e incongruo. [4 - Si veda, per la riforma delle nullità matrimoniali, la critica di G. Boni
(La recente riforma del processo di nullità matrimoniale. Problemi, criticità,
dubbi), in Statoechiese.it, 7 marzo 2016.]. Proprio per questo – perché
innova su aspetti cruciali e sensibili, perché si pone in sintonia
con i tre processi storici, perché prende rischi – il significato
della riforma esplicita operata da Francesco è grande. E
non meno espressivo della forza profetica del suo pontificato.
Francesco è “profeta di un futuro che non gli appartiene” per ché lo inizia non solo con la sua testimonianza personale, ma
anche con le sue riforme esplicite.
Quanto è profonda, la profezia di Francesco, quanto è autenticamente
rinnovatrice? È questa la domanda cruciale. I critici
del Pontefice, dalle diverse posizioni, lo attendono al guado.
Dentro la Chiesa di Roma, per i conservatori, il rinnovamento
è imponente, reale, e perciò temibile [5-In relazione alla preghiera interreligiosa del 6 gennaio 2016 condotta da
Francesco, Mons. Bernard Tissier de Mallerais, vescovo ausiliario della
Fraternità San Pio X, ha espresso la propria indignazione e ha condannato
nel modo seguente il relativismo del pontefice: “Francesco ha detto
esattamente: ‘Molti pensano in modo diverso, sentono in modo diverso,
cercano Dio o trovano Dio in diverse modi’. Quindi, poco importa la
realtà oggettiva di Dio, l’importante è il feeling, il sentimento di ciascuno
riguardo a Dio o alla religione. Ogni uomo si crea un Dio di suo
gusto. E papa Francesco non dà alcun giudizio su un tale relativismo, un
tale modernismo. Noi abbiamo un papa che lascia che si propaghi la religione
su misura di ciascuno. La definisce la “ricerca” della verità. Ma la
Verità è una, è Nostro Signore Gesù Cristo, che solo dice: ‘Io sono la
Via, la Verità e la Vita’(Giov 14, 6). Solo il Verbo incarnato, l’unico Salvatore
degli uomini, è la Verità. La buona volontà di quelli che ignorano
ed errano non li salva. La buona volontà non salva nessuno, solo la
Verità salva”
( http://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=1765:intervista-con-mons-bernard-tissier demallerais&catid=64&Itemid=81 ).]. Per i riformatori, il rinnovamento
non è sufficiente, o è superficiale. Oppure rischia
di essere una riforma della curia, a fronte del bisogno di una
riforma della Chiesa. [6-Si veda in tal senso S. DIANICH, La Chiesa cattolica verso la sua
riforma, Queriniana, 2014.]. Fuori di essa, nelle altre chiese cristiane,
è forte il pregiudizio che il cattolicesimo romano di
sempre stia solo cambiando pelle: che ciò che conta per
Roma, ancora una volta, sia perpetuare il proprio potere spirituale,
economico e politico.
Il cattolicesimo romano si dimostrerebbe il genere di cristianesimo
più capace di intercettare la domanda di spiritualità e di
appartenenza, di individualità e di popolo, di coscienza e di
norme. Abbracciando omosessuali e divorziati, evangelici e
pentecostali, tra un incontro con il Patriarca di Costantinopoli e
uno con il Patriarca di Mosca in nome dell’unità dei cristiani
davanti alle persecuzioni, il cattolicesimo globalizzato di Bergoglio
inghiottirebbe pezzi di cristianità e supererebbe in numero
di fedeli l’insieme delle chiese protestanti. Una stagione inclusiva
e dialogante sarebbe, in tal senso, una manovra astuta e
tempestiva: in perfetta aderenza con lo stereotipo del gesuita.
I risentimenti storici sono forti, gli schemi del passato resistono,
le sfide del presente sono terribili. A questa prova è
atteso Jorge Bergoglio: la profezia di Francesco cammina sul
filo della tradizione, e del suo superamento.
*** *** ***
>>>> pietro e francesco
La lotta alla corruzione
>>>> Michele Riondino
Sin dalle prime battute del suo ministero papa Francesco ha
rivolto una particolare attenzione al tema della tutela del bene
comune, e segnatamente agli effetti che la corruzione è in
grado di produrre a danno della società. A tale proposito
appare opportuno richiamare fin d’ora due pronunciamenti
magisteriali del Pontefice presenti in alcuni passaggi della
Evangelii gaudium, e successivamente nel discorso rivolto
dal Papa alla delegazione dell’Associazione internazionale di
diritto penale, ricevuta in Vaticano il 23 ottobre del 2014. Da
un punto di vista strettamente normativo – e in linea con la
più ampia riforma della Curia Romana più volte annunciata
dal Vescovo di Roma – giova inoltre ricordare la riorganizzazione,
ad opera di papa Francesco, degli organismi economico-finanziari
della Santa Sede che operano nello Stato
della Città del Vaticano [1- Cfr. M.J. ARROBA CONDE – M. RIONDINO, Introduzione al diritto
canonico, Milano, 2015, pp. 157-161. ].
In poco più di tre anni di pontificato Francesco ha fatto riferimento
in forma esplicita al tema della corruzione in circa
cinquanta occasioni. Per ragioni di obbligata brevità penso
siano degni di nota i richiami presenti nella Esortazione apostolica
Evangelii gaudium, risalente al 24 novembre del 2013.
Nel cap. II, e precisamente nel n. 56, il Pontefice richiama –
in linea con il Magistero sociale dei suoi predecessori – la disparità
tra paesi opulenti e paesi “sempre più distanti dal
benessere”. La ragione di ciò si rinviene, in via principale, nel
predominio che il “facile denaro” ha avuto sugli uomini; di
qui il richiamo al fatto che fenomeni corruttivi, ampiamente
presenti nelle diverse realtà sociali, sono strettamente collegati
alla carenza di valori universali, quali per esempio il riconoscimento
dell’altro come essere umano che si pone in relazione
con me e non come strumento per raggiungere “facili
guadagni” (n. 55). La crisi economico-finanziaria che stiamo
attraversando si inserisce, purtroppo ed inevitabilmente,
come conseguenza della negazione dell’essere umano quale
realtà relazionale: papa Francesco rimarca senza esitazione
che all’origine dell’attuale crisi finanziaria via sia una “profonda
crisi antropologica” che porta gli uni (i più potenti) a
prevalere sugli altri (i più deboli).
Se privilegiare vie non trasparenti per aumentare i propri beni
diviene la regola adottata dalle imprese pubbliche, da quelle
private e dal mercato, si finirà per promuovere ancor più
palesi squilibri tra diverse realtà, all’interno delle quali coloro
che vivono situazioni più critiche sono destinati a soccombere.
Evitare che i guadagni di pochi crescano esponenzialmente
rispetto alla maggioranza non è esclusivamente un
principio morale, bensì un vero pilastro portante di una etica
comune che non è prerogativa di una confessione o di un’altra.
Contrastare il fenomeno della corruzione in tutte le sue
forme significa quindi assumere un “impegno comunitario”
(da cui prende il titolo il capitolo), che ricade in via principale
su coloro i quali hanno maggiori responsabilità pubbliche,
istituzionali o di leadership (n. 58).
Il duro monito di papa Francesco ha preso corpo
in una riforma normativa sui nuovi organismi
economici della Santa Sede
Al tema della corruzione papa Francesco dedica ulteriori e
puntuali riflessioni. La seconda su cui vorrei soffermare l’attenzione
è costituita da una critica ad intra che il Pontefice
rivolge ad una “Chiesa mondana” (n. 97). Sarebbe eccessivamente
lungo ripercorrere i numerosi pronunciamenti del Papa
(soprattutto nelle sue omelie a Santa Marta) in cui non si è
mai sottratto dal ribadire come gli atteggiamenti che si identificano
con una eccessiva mondanità spesso sono legati ad
una carenza di autenticità, e conseguentemente a possibili
inclinazioni verso ciò che potrebbe essere poco onesto.
Francesco ci ricorda inoltre come tra le situazioni più comuni
in ambito economico non sia difficile trovare fenomeni corruttivi
mascherati da una qualche apparenza di bene (n. 97).
Pensiamo per esempio, e limitatamente alla situazione del nostro paese, ai fenomeni corruttivi e di riciclaggio di denaro
proveniente da reato ad opera di associazioni a delinquere di
stampo mafioso [2 -A tal proposito, seppur con inspiegabile ritardo, anche l’Italia ha cercato
di adeguarsi alla normativa europea e transnazionale in materia. Non
possiamo non menzionare alcune tra le modifiche normative introdotte
di recente, come per esempio l’istituzione di una Autorità nazionale anticorruzione,
istituita con il Decreto legge 90/2014 (poi convertito nella
legge n. 114/2014) o le misure di prevenzione introdotte a seguito della
entrata in vigore della legge n. 190/2012. ].
Il duro monito di papa Francesco ha preso corpo in una riforma
normativa sui nuovi organismi economici della Santa Sede,
peraltro già iniziata da Benedetto XVI nel 2010 con l’istituzione
dell’Autorità di informazione finanziaria (Aif), a seguito
dell’entrata in vigore della lettera data in forma di motu proprio
sulla “Prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo
finanziario e monetario” del 30 dicembre del 2010.
Per quanto attiene al rapporto tra la Santa Sede e la normativa
europea ricordiamo, per esempio, l’istituzione nel 1997, ad
opera del Consiglio d’Europa di Moneyval quale organo principale
di monitoraggio riconosciuto a livello europeo in materia
di contrasto al riciclaggio, cui la Santa Sede ha aderito inoltrando
ufficiale richiesta nel 2011, accettata l’anno successivo
dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa [3-Cfr. A. SARAIS, La valutazione di Moneyval nei confronti della Santa
Sede e dello Stato della Città del Vaticano in materia di lotta contro il
riciclaggio dei capitali ed il finanziamento del terrorismo, in Il Diritto
Ecclesiastico 123 (2012), pp. 209-224. ].
Nel discorso rivolto alla delegazione dell’Associazione internazionale
di diritto penale del 23 ottobre del 2014 – dopo aver
ribadito la reale necessità di un ripensamento dell’assetto
penalistico nei diversi paesi, invitando i giuristi alla missione
originaria di ricorrere al sistema sanzionatorio quale extrema
ratio, senza dimenticare il fallimento che la giustizia penale
tradizionale attraversa da decenni – il Pontefice si sofferma su
alcune tipologie di reati sempre più in aumento, richiamando
esplicitamente alcuni principi già emersi nella lettera che
papa Bergoglio aveva inviato ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’associazione [4-Cfr. L. EEUSEBI, Un’asimmetria necessaria tra il delitto e la
pena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale LVII (2014),
pp. 1022-1029. ] .
Nella terza parte del
suo discorso il Pontefice fa riferimento a due fattispecie criminose,
o tipologie delittuose: la tratta delle persone, con particolare
riferimento all’abuso, sfruttamento e commercio di
minori ed anziani (non esitando a definirli veri e propri “crimini
di lesa umanità” che il più delle volte sono posti in
essere anche grazie alla “collaborazione degli Stati”), e la corruzione,
dedicando a quest’ultima interessanti riflessioni.
La risposta sanzionatoria alla corruzione “è come una rete che cattura solo i pesci piccoli”
Fin dall’incipit del suo discorso papa Francesco ricorda come
la “scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile
a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica
con poteri forti”, e – riprendendo il passaggio evangelico
dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-8) – afferma che non
ci sia cosa più difficile che aprire una “breccia in un cuore corrotto”.
Ed è proprio su questa base che il Pontefice sofferma la
sua attenzione e ci propone riflessioni che ampliano ed arricchiscono
il precedente magistero della Chiesa in tema di bene
comune. Dopo aver rammentato che la via privilegiata e più
comune alla corruzione coincide con la scelta di “scorciatoie
poco lecite” che portano alcuni a considerare gli uomini solo
come mezzi utili ai fini di un arricchimento, definisce la corruzione
come “un male più grande del peccato” che necessita
di essere curato, e non tanto perdonato.
Il fatto più drammatico è che il fenomeno della corruzione sia
divenuto, negli anni, un fenomeno da molti definito naturale,
sino ad arrivare a costituire uno stato personale legato, per
esempio, alla non trasparenza nelle transazioni commerciali e
finanziarie a tutti gli stadi e livelli. Riferendosi infine in modo
più diretto alla platea che aveva di fronte, papa Francesco
offre alcuni spunti che potrebbero essere recepiti da molte realtà statuali. Fermo restando l’impegno, in particolare della
comunità internazionale, nella lotta alla corruzione perseguita
sempre con maggiore incisività con la previsione di maggiore
prevenzione o l’aumento delle pene edittali massime previste
per coloro che commettono tali illeciti, il Pontefice non
manca di sottolineare come, purtroppo, la risposta sanzionatoria
continui ad essere troppo spesso selettiva, richiamando
una metafora alquanto incisiva: “È come una rete che cattura
solo i pesci piccoli”. Non serve spendere molte parole per dire
quanto sia urgente perseguire, senza alcuna eccezione e con
severità, le forme di corruzione che causano gravi danni
sociali, non ultimi quelli di natura economico-finanziaria
(pensiamo, ad esempio, ai reati contro la pubblica amministrazione
o contro il patrimonio pubblico, oggetto peraltro di
continue modifiche da parte di molti ordinamenti statuali).
Dai richiami fatti non risulta difficile affermare come il magistero
di papa Bergoglio sia alla base dell’impegno di riforma
legislativa da lui fortemente voluto ed attuato, in particolare
con gli Statuti dei nuovi organismi della Santa Sede. Data la
peculiare importanza che oggi ricopre la formulazione di una
politica di amministrazione e di controllo programmata in
modo razionale e finalizzata a garantire un profilo organizzativo
condiviso e funzionale, nei nuovi Statuti trova spazio la
previsione esplicita di strumenti che consentano lo sviluppo
di indirizzi volti ad una maggiore trasparenza [5- Per una più ampia disamina, cfr. G. DALLA TORRE, Sui nuovi organismi
della Santa Sede. Considerazioni generali, in Monitor Ecclesiasticus
CXXX (2015), pp. 277-282; C. BEGUS, Sui nuovi organismi della
Santa Sede. Cenni di diritto patrimoniale, in Monitor Eccleisasticus
CXXX (2015), pp. 289-294; C. PINOTTI, Sui nuovi organismi della
Santa Sede. Strutture e competenze, in Monitor Ecclesiasticus CXXX
(2015), pp. 283-288 ]. Infatti la pubblicazione
degli Statuti di tali nuovi organismi [6-In vigore dal 1° marzo 2015 e facilmente reperibili on line nel sito della
Santa Sede] permette di
cogliere in modo più chiaro la natura e le finalità in cui si collocano
il Consiglio per l’Economia, la Segreteria per l’Economia
e l’Ufficio del Revisore Generale.
Il nuovo assetto era già stato preannunciato dal Pontefice
nella lettera apostolica data in forma di motu proprio “Fidelis
dispensator et prudens” del 24 febbraio 2014, dove emergeva
l’urgenza di dare alla Chiesa universale una normativa finalizzata
a tutelare e gestire con maggiore attenzione i propri
beni, finalizzati da sempre al bene comune nella prospettiva
dello sviluppo integrale della persona umana. Palese, in proposito,
risulta il riferimento alla Dichiarazione di Lima sui
principi guida del controllo delle finanze pubbliche del 1977,
dove, nel par. II, si ribadisce l’autonomia e l’indipendenza di
ogni istituzione superiore di controllo: certamente la Santa
Sede, quale soggetto di diritto internazionale, e lo Stato della
Città del Vaticano (Scv) hanno inteso recepire, pur nel
rispetto delle loro caratteristiche, alcuni tra i principi contenuti
nella citata Dichiarazione. Si deve avvertire che con l’istituzione
dei nuovi organismi papa Francesco ha voluto
affrontare la delicata questione di tutelare e gestire con attenzione i beni (mobiliari ed immobiliari) che appartengono alla
Sede Apostolica, nel rispetto della missione di questa e della
finalizzazione di quelli a norma dell’ordinamento canonico.
Per quanto attiene al profilo nuovo della questione – che consiste
in una maggior armonizzazione delle attività economico
– finanziarie che fanno capo alla Santa Sede con le richiamate
esigenze di trasparenza postulate dagli obiettivi di una
gestione finanziaria ed amministrativa etica ed efficientemente
orientata conformi con le norme che si sono venute a
creare anche in sede internazionale – la riforma voluta da
papa Francesco incrementa e completa ciò che già dal 2010
Benedetto XVI aveva attuato. I riferiti Statuti pongono in evidenza
che i tre Uffici concorrono, ciascuno secondo le attribuzioni
conferite loro e con le definite modalità operative, al
perseguimento delle finalità di coordinamento, vigilanza e
controllo delle attività amministrative ed economico – finanziarie
dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate
con la Santa Sede e di quelle che operano nello Stato
della Città del Vaticano [7-Cfr. P. CONSORTI, Le riforme economiche di papa Francesco, in
Finanze vaticane e Unione europea. Le riforme di papa Francesco e le
sfide della vigilanza internazionale, a cura di P. Consorti – E. Bani,
Bologna 2015, pp. 7-31.].
Prudenza, vigilanza, lealtà e trasparenza,
“unite al coraggio
della denuncia”, aiuteranno a debellare la piaga della corruzione
Da una analisi degli Statuti si evince inoltre, e con maggiore
chiarezza, anche la configurazione istituzionale di altre entità
che assumono rilevanza per quanto attiene all’attività amministrativa,
economica e finanziaria. L’obbligato riferimento va
infatti alla già menzionataAif, fortemente voluta da papa Benedetto
XVI, i cui rapporti annuali sono consultabili dal 2012 on
line, essendo pubblicati sul sito della medesima Autorità.
Per quanto attiene al Consiglio per l’Economia (la cui finalità,
ex art. 1, consiste nel vigilare sulle strutture amministrative
e finanziarie della Santa Sede e dello Scv), gli Statuti non mancano di rammentare come tale funzione debba
essere esercitata secondo la Dottrina sociale della Chiesa,
con un particolare riferimento alle migliori pratiche riconosciute
a livello internazionale in materia di pubblica amministrazione.
Le competenze del Consiglio sono delineate,
quindi, in modo da esaltare il ruolo strumentale, rispetto alle
decisioni del Pontefice, che l’organismo viene ad assumere
quale organo deputato alla verifica dei bilanci preventivi
annuali della Santa Sede e dello Scv.
La nuova architettura è arricchita inoltre dalla previsione
normativa volta ad istituire la Segreteria per l’Economia e
l’Ufficio del Revisore Generale. La Segreteria, la cui natura
è sancita dall’art. 1 dove viene definita come un “dicastero
della Curia Romana competente per il controllo e la vigilanza
in materia amministrativa e finanziaria”, si colloca in
modo subordinato rispetto al Consiglio, in quanto quest’ultimo
detiene un potere di direzione e controllo. [8-Opportuna appare inoltre, anche in forza di una più proficua organizzazione
e trasparenza, la suddivisione in due distinte sezioni: la Sezione
per il Controllo e la Vigilanza (artt. 6-14) e la Sezione Amministrativa
(artt. 15-19): la prima finalizzata al monitoraggio delle attività ordinarie
dei dicasteri della Curia romana e delle istituzioni collegate alla Santa
Sede (art. 8), con una particolare attenzione alle risorse umane, finanziarie
e materiali equamente ripartite tra di essi; la seconda finalizzata, in
via principale, a porre in atto indirizzi, modelli e procedure in materia di
appalti volti ad assicurare che tutti i beni e i servizi necessari alla Santa
Sede e alle istituzioni che operano nello Scv siano acquisti nel modo più
prudente ed economicamente vantaggioso (art. 15). Entrambe le sezioni
sono dirette da un Prelato Segretario Generale, nominato per cinque
anni, dal Pontefice (art. 4). ]. Da ultimo, e
più marcatamente aderente alle caratteristiche dei cosiddetti
“organi di Audit“, trova collocazione l’Ufficio del Revisore
generale, che a norma dell’art. 1 dello Statuto è qualificato
quale ente della Santa Sede a cui è affidato il compito di revisione dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate
alla Santa Sede e di quelle operanti nello Scv.
Il Revisore opera in piena autonomia ed indipendenza,
seguendo le migliori prassi riconosciute a livello internazionale
in materia di pubblica amministrazione, secondo il disposto
dell’art. 2. L’art. 6 par. 1 prevede, inoltre, l’integrità, la
confidenzialità e la sicurezza delle segnalazioni inerenti ad
attività anomale, proteggendo l’identità dei soggetti che effettuano
al medesimo Revisore tali segnalazioni.
In conclusione, dalla analisi condotta, incentrata sul recente
magistero e sulle riforme legislative in tema di contrasto alla
corruzione e di tutela del bene comune, emerge come l’impegno
assunto da papa Francesco risponda non solo ad una
urgenza contingente (illuminata da una continua attenzione ai
segni dei tempi) di predisporre modalità più consone, e basate
su di una maggiore integrità e trasparenza: bensì ad uno
sforzo – in linea con quanto iniziato dai suoi predecessori – di
rispondere meglio ai fini naturali e soprannaturali a cui la
Chiesa è istituzionalmente preposta, finalità cristallizzate da
una tradizione plurisecolare che affonda le sue radici nella
Scrittura, nonché nel libro V del Codice di diritto canonico
del 1983 sui beni temporali della Chiesa.
Alcune settimane fa, a margine di un convegno che si è svolto
alla Camera dei Deputati, Frans Timmernans, primo vicepresidente
della Commissione europea, ha affermato che “nessuna
società cresce se non è comunità”. Ebbene, ancora una
volta l’impegno di papa Francesco illumina e guida i difficili
passi in avanti, a volte impopolari ed impervi, già intrapresi e
quelli che verranno: finalizzati ad operare in vista di una maggiore
integrità e trasparenza al servizio della comunità, e di
conseguenza del bene di ogni persona. A ciò inevitabilmente
si dovranno aggiungere prudenza, vigilanza, lealtà e trasparenza:
caratteristiche che, “unite al coraggio della denuncia”,
aiuteranno ad evitare anche la pur minima corresponsabilità o
complicità di fronte a fenomeni legati alla corruzione, come
ha affermato il Pontefice nel n. 19 della Bolla di indizione del
giubileo Misericordiae Vultus dell’11 aprile 2015.
*** *** ***
>>>> pietro e francesco
Il Papa e l’Italia
>>>> Gennaro Acquaviva
Una premessa: ci interessiamo e torniamo ad interrogarci
sul destino del “governo del papa” per quello che siamo,
e cioè da socialisti italiani, eredi non solo del “concordatario”
Craxi. Lo facciamo in particolare perché è fuori di dubbio che
il papato ha avuto e continuerà ad avere un ruolo molto importante
in Italia. Il mondo solidale rappresentato da una Chiesa
che tuttora cammina pellegrina sulla terra che è la terra di tutti
gli italiani non è infatti ancora del tutto impotente o inefficiente
rispetto ai problemi ed ai drammi che ci circondano,
come sembrano ritenere oggi anche alcuni dei suoi stessi
pastori. Il popolo cattolico che qui vive, lavora, prega e opera
nella carità è infatti ancora oggi una realtà viva, vitale e decisiva
per l’Italia, al cui destino esso è unita attraverso mille fili.
La mia convinzione è che, anche se molti nelle sue file
sono intimoriti ed incerti di fronte alle difficoltà dell’ora
presente, questo popolo cattolico ha il dovere di tornare a
ricordarsi che esso è parte essenziale di una comunità di
persone che riconosce la politica come la più alta forma di
carità per un cristiano.
È infatti questa la ragione elementare che ha reso e rende
unici (e, ripeto, decisivi) ancora oggi i cattolici nella vicenda
sociale e politica del nostro paese: semplicemente perché essi
sono – lo vogliano o no, ne siano coscienti o no - una risorsa
preziosa per la politica, forse l’unica ancora praticabile,
assieme a quella espressa cocciutamente da chi vuole far riemergere,
ma soprattutto far vivere, i valori ed i programmi di
un socialismo liberale e riformatore.
Torniamo dunque ad occuparci del destino di questo popolo
di credenti in Gesù Cristo chiamato all’appello del rinnovamento
dalla predicazione pastorale e dall’esempio di un
papa che - pur se viene “dalla fine del mondo” - ha mostrato
di essere portatore di capacità e volontà non tradizionali.
Seguendo il percorso da lui indicato ci siamo proposti di
confrontarlo con l’equilibrio raggiunto nei secoli passati dal
governo del papa, e cioè da un governo romanocentrico oggi
obbligatoriamente immerso nell’universalismo dell’impegno
planetario della azione della sua Chiesa.
Ne è emersa, come prima questione, la necessità di riconsiderare
i termini stessi di una riforma del “Primato petrino”, e
cioè di quel principio fondante a cui è legata indissolubilmente
la funzione del vescovo di Roma nella vita della
Chiesa. Abbiamo infine riconosciuto che individuare una sua
riforma è questione preliminare e comunque coessenziale
all’azione riformatrice: e cioè alla costruzione degli atti successivi
destinati a produrre rinnovate fattezze organizzative e
gestionali nel governo del papa. Rispetto a questo percorso è
parso infine evidente che l’attuazione di questa riforma è
destinata a produrre conseguenze anche sulla gestione e funzione
della Chiesa italiana, non foss’altro perchè non vi può
essere “universalità” senza “romanità”.
Wojtyla diventa papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi dopo quella di Montini
Cerco di proporre una spiegazione di questa proposizione
finale. Quando, nell’ottobre del 1978, un vescovo polacco
titolare della diocesi di Cracovia venne eletto pontefice dopo
quasi cinquecento anni di costante preferenza italiana, la
preoccupazione che indubbiamente attraversò l’animo di quel
conclave nasceva dal fatto che quella antica e venerata tradizione
era riconosciuta legittima ed anche utile dall’intera
Chiesa universale: e non solo come vincolo geopolitico, ma
soprattutto come importante condizione di “facilitazione”
nella gestione della sede di Pietro, plasmata appunto per lunghi
secoli dalla eccezionale peculiarità di un rapporto che era
venuto acquisendo qualcosa di sacrale rispetto ad un luogo,
ad una cultura, ad un popolo.
Questo legame, evidente lungo molti secoli, era tornato ad
apparire di grande attualità proprio in quegli anni che si incrociarono
con l’elezione di Giovanni Paolo II. Wojtyla diventa
infatti papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi
dopo quella di Montini: vicende che oggi ci fanno evocare
immediatamente la crisi della Dc, e non solo come tragica metafora. Per molti è infatti ora chiaro che l’esistenza in Italia
di un partito cattolico così forte e così pervasivo come era
stata la Democrazia cristiana (anche rispetto alle articolazioni
più intime della Chiesa), aveva inevitabilmente svolto un
ruolo importante nel favorire o nel deprimere la formazione
della classe dirigente della Chiesa di Roma.
Uno che di queste cose se ne intendeva, Gianni Baget Bozzo,
ricordò già nel 1994 una semplice verità: “Non si può valutare
la storia della Chiesa in Italia senza considerare come suo
maggior risultato proprio l’unità dei cattolici attorno alla Dc.
La Dc è parte determinante della realtà della Chiesa in Italia
in questi ultimi cinquant’anni. Non c’è altro settore della vita
ecclesiale che sia così rilevante e determinante”. E aggiungeva:
“La Dc ha svolto nel XX secolo la funzione che gli Stati
della Chiesa hanno svolto per millequattrocento anni”. [1- G. BAGET BOZZO, Cattolici e democristiani, Rizzoli, 1994, p. 7. e p. 27.] . Oggi,
a quasi quarant’anni da quegli eventi, penso che possiamo
serenamente prendere atto anche noi delle consequenzialità
allora così realizzatesi, ma anche degli inevitabili sviluppi a
cui quelle vicende hanno dato luogo fino al giorno d’oggi.
Una parola sullo specifico della Chiesa italiana e del suo
governo, la cui condizione vitale (e, diciamo, anche funzionale
e organizzativa) ha dovuto reagire (e si è quindi, nel
tempo, inevitabilmente dovuta confrontare e plasmare) anche rispetto a questi accadimenti e condizioni post 1978. Possiamo
tornare a ricordare sinteticamente i tre momenti che ne
hanno indirizzato il percorso: la costituzione (1984-86) della
Conferenza episcopale in forma organica e rappresentativa,
dotata di mezzi che ne hanno fatto una struttura forte e ben
funzionante; la scomparsa della Dc (1994), traumatica per
l’insieme della cattolicità italiana; la costante presenza al vertice
della Chiesa di un papa non italiano.
Il tessuto della cattolicità italiana non solo non
sembra oggi in grado di assolvere ad una
funzione di sostegno nella riforma del governo
papale, ma rischia addirittura di essere ostacolo
obiettivo ad un suo utile e proficuo dispiegarsi
Sono state queste tre condizioni oggettive che hanno portato
alla costruzione delle principali modalità di azione che hanno
presieduto all’organizzazione più recente della Chiesa italiana.
Esse sono infatti all’origine della stabilizzazione e
gestione del nuovo strumento di rappresentanza e di governo
rappresentato dalla Cei; e sono sempre esse che hanno dato
fondamento a quella che a me sembra essere la sua più significativa
caratteristica odierna, tra l’altro fonte di esplicita contraddizione
proprio rispetto alle modalità di governo perseguite
da Papa Francesco: e cioè l’applicazione costante di un
forte principio di centralizzazione, inserito a sua volta in uno
schema gerarchizzato e fondamentalmente romanocentrico.
Occorre infine ricordare che questo è avvenuto nella permanenza
di un consenso effettivo e generalizzato da parte dei
vescovi italiani, guidati per quasi vent’anni da un autorevole
e abile presidente quale è stato il cardinale Ruini, che ha
potuto godere anche di una costante fiducia papale.
Per avanzare un giudizio sintetico su questa evoluzione, mi
sembra che possiamo riconoscere che si è trattato della
costruzione di una intelaiatura pensata per la “navigazione
ordinaria” di un vascello che, di contro, si è invece sempre
più trovato sospinto entro la eccezionalità di una crisi politica,
sociale e culturale che assumeva rilievo e dimensioni
epocali: in Italia come in un Occidente in decadenza. Ciò
ha prodotto il risultato che - al di sotto di vertici centralizzati
che anche per questo sono stati portatori di alta visibilità
- il tessuto della cattolicità italiana non solo non sembra
oggi in grado di assolvere ad una funzione di sostegno o quantomeno di supplenza nella riforma del governo papale,
ma rischia addirittura di essere ostacolo obiettivo ad un suo
utile e proficuo dispiegarsi.
Non intendo naturalmente tralasciare il fatto che, in tutti questi
lunghi quarant’anni, la tradizione cattolica ha continuato a
permanere radicata e diffusa nella società italiana: sia nella
sua vasta base popolare che nell’infinito apporto di carità
concreta, come nella diffusissima e tuttora vitale presenza
della sua rete parrocchiale. Ma con quali conseguenze rispetto
alla sua tradizione e funzione, interna ed esterna, radicata e
fondata su di un retaggio secolare?
È proprio un cattolico “figlio di obbedienza” (come lui si
professa), Giuseppe De Rita, che ci indica una chiave di lettura
condivisibile rispetto a questo quesito. In una recente
lettera aperta egli esprime la sensazione “che i vescovi italiani,
pur sentendosi partecipi degli sforzi di innovazione del
Pontefice, non riescono poi a radicarli nella testa e nell’azione
delle tante parrocchie, lasciate spesso alla routine quotidiana
se non ad un dubitoso attendismo.” Prosegue De Rita:
“Chi, come me, ha vissuto con partecipe convinzione il
periodo post-conciliare e ‘montiniano’ della Chiesa italiana
ricorda bene che in quel periodo non c’èra vuoto intermedio:
i vescovi erano tutti motivati a seguire ed alimentare la linea
papale, con un impegno convinto e diffuso delle varie comunità
locali (si pensi alle decine e decine di appuntamenti diocesani
organizzati fra il ’74 e il ’76, in preparazione al Convegno su Evangelizzazione e Promozione Umana). Poi il
governo della Chiesa è diventato carismatico ed a forte verticalizzazione,
con un progressivo impoverimento sia delle
sedi intermedie che delle comunità locali.” Questo vuoto
intermedio non è casuale o transitorio, conclude De Rita:
“Non è un episodio congiunturale”.
Possiamo far punto qui per quello che ci interessava dire,
giunti a questo punto della riflessione. Forse è utile solo
aggiungere che la condizione della Chiesa italiana descritta
da De Rita costituisce anche un danno grave per la nostra
società, come possiamo constatare oggi giorno rispetto allo
svolgersi della nostra specifica crisi d’epoca: ma è probabile
che essa possa essere un danno o un ostacolo non meno grave
anche rispetto al rinnovamento del governo del vertice
papale. Non fosse altro perché esso, come abbiamo descritto,
è vitalmente ed inevitabilmente collegato con la Chiesa italiana
per mille ragioni storiche ed umane, e quindi esposto al
rischio costante della crescita ulteriore della tradizionale verticalizzazione
nel governo del Vescovo di Roma: il quale è
prigioniero, in qualche maniera (pur se indirettamente e certamente
involontariamente), dei guasti di una tendenza conservativa
che parte di fatto dalla “sua” diocesi e che rischia
così di ostacolare la liberazione delle sue migliori energie,
certamente presenti, probabilmente ancora all’altezza dell’impegno,
e comunque molto utili per tornare a garantire una
supplenza ancora storicamente necessaria.
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