sabato 4 novembre 2017

Un breve cenno sulla Teoria Monetaria Moderna


In questo periodo di crisi generalizzata, la Teoria Monetaria Moderna (MMT)  - che ha radici nel cosiddetto Cartalismo - è molto dibattuta e per certi versi criticata, anche se secondo alcuni autori essa non fa altro che descrivere il sistema monetario in vigore sin dall'abolizione del sistema aureo  avvenuta nel 1971. Forse le critiche di cui è fatta oggetto la MMT al giorno d’oggi, in cui il problema di sovranità monetaria degli Stati Membri sembra messo in discussione proprio nei confronti dell’Unione Europea, sono riconducibili ai due seguenti elementi essenziali che essa stigmatizza :
a.       Uno Stato pienamente sovrano, che ha potere sulla propria moneta, non può fallire.

b.      Una politica statale di deficit implica l'immissione di ricchezza da parte dello Stato verso i privati, mentre una politica di surplus di bilancio implica ricchezza che lo Stato ritira dai privati.
Il discorso che segue, però, esula dall’ideologia o dal dibattito circa la natura della ricchezza o se la ricchezza vera la produce l'intrapresa e non la finanza, che al più sembra ridistribuisca, o per meglio dire, rastrelli e impieghi, soprattutto speculativamente, la ricchezza prodotta dall'intrapresa. Come pure non si discute se la ricchezza, al pari, non la produce nemmeno la carta stampata in forma di moneta o quella creata attraverso forme derivate, ma soltanto il lavoro e la creatività dell'uomo, delle comunità e delle nazioni cui essi appartengono, come sembrano sostenere seguaci della MMT.
Per le finalità di questo lavoro assumiamo, quindi, aldilà di ogni ideologia e di ogni discussione, che il ragionamento  analitico di seguito riportato - e che è caratteristico della MMT - possa essere accettato e possa entrare a far parte del ragionamento che viene di seguito proposto.
In ogni sistema economico aperto verso altri sistemi  i saldi dei singoli settori  (privato,  pubblico, estero)  possono essere ripartiti in base al PIL attraverso il seguente ragionamento:
PIL = C + I + G + (X – M)                           (1)
dove :
C = consumi
I = investimenti
G = spesa pubblica
X = export
M = import
oppure detto in maniera diversa, cioè con l’ottica del settore pubblico:
PIL = C + S + T                                 (2)
C = consumi
S = risparmi
T = tasse

Da qui si può concludere, uguagliando la (1) e la (2) che :
C + S + T = PIL = C+ I + G + (X – M)                    (3)
E raggruppando per settori  si giunge ad affermare che la somma del saldo di ciascuno dei tre settori deve essere zero:
(I – S) + (G – T) + (X – M) = 0                                 (4)
dove:
(I – S) = saldo del settore privato
(G - T) = saldo del settore pubblico
(X – M) = saldo del settore estero

La (4) si può porre anche sotto la seguente forma :
(I – S) + (G – T) = - (X – M)             (5)
che ci aiuta a capire come il saldo con l’estero riassuma in sé il risultato dell’attiva produttiva del settore privato e di quella gestionale/amministrativa del settore pubblico di un sistema economico nazionale.
Il saldo con l’estero – positivo o negativo che sia - è comunque espressione della “divisione internazionale del lavoro”, ovvero della specializzazione produttiva dei singoli sistemi economici, nonché dell’apertura di un sistema economico verso gli altri. Un saldo verso l’estero esiste in quanto si creano dei differenziali nella produzione e nel consumo di beni e servizi tra le diverse economie. Tali differenziali generano dei flussi di beni e servizi in un verso e di corrispettivi in moneta nel verso opposto, che possono essere colmati attraverso il commercio internazionale che a sua volta può indurre effetti di riequilibrio o meno. In ogni caso, il commercio internazionale crea una rete di legami percorsa da flussi (quantità di beni e servizi o in senso opposto movimenti di capitali)  tra le diverse economie.