martedì 31 maggio 2016

LA LEZIONE DI STARACE (ENEL) ALLA LUISS : ECONOMIA DELLA PAURA? (UN PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA NE AVEVA PARLATO APERTAMENTE DI QUESTA TENDENZA!)

Per il governo dell'azienda, da Elton Mayo (1920) e dalla successiva Scuola delle Relazioni Umane si è passati al Management Motivazionale e da questo a quello  per Obiettivi. Avevamo pensato di aver raggiunto risultati importanti nella gestione e nella psicologia aziendale ed evidentemente non avevamo ben compreso dove si stava andando. Infatti, l'azienda di oggi conferma di essere orientata verso il Management della Paura. Al premio Nobel Krugman, che lo aveva anticipato qualche anno fa in forma del tutto generale con un articolo sul NYT dal titolo "Economia della Paura", si è fatto fatica a credergli (vedi http://www.associazioneambientesocieta.it/as/index.php/Tematiche-Socio-Economico-Politiche/economia-della-paura.html). Ma, la lezione tenuta all'Università LUISS di Roma da Starace, Amministratore Delegato dell'Enel) - uno dei più importanti amministratori di aziende pubbliche in Italia - conferma una tendenza preoccupante.
Il video della lezione di Starace (che peraltro ha prodotto interrogazioni parlamentari) ha fatto il giro dei social media ed è reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=Eo0lx7AZsJY.
Proprio alla Luiss, università che forma la classe dirigente, i giovani "bene" destinati alla Confindustria e ai consigli d’amministrazione di domani, ( al 42′.40 del video) Starace ha risposto alla domanda sul cambiamento dicendo: “Innanzitutto ci vuole un gruppo di persone convinte su quest’aspetto. Basta un manipolo di cambiatori. Poi vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole cambiare. E bisogna distruggere, distruggere fisicamente questi centri di potere. Per farlo, ci vogliono i cambiatori che vanno infilati lì dentro, dando a essi una visibilità sproporzionata rispetto al loro status aziendale, creando quindi malessere all’interno del ganglo dell’organizzazione che si vuole distruggere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e questa cosa va fatta nella maniera più plateale possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione. Questa cosa va fatta velocemente, con decisione, senza requie. Dopo pochi mesi l’organizzazione capisce, perché alla gente non piace soffrire. Quando capiscono che la strada è un’altra, tutto sommato si convincono miracolosamente e vanno tutti lì. È facile”.
Starace non ha fatto altro che raccontare "innocentemente" ciò che è successo (e succederà ancora) nei processi di cambiamento (per es. liberalizzazioni e privatizzazioni - che l'Enel ha sperimentato!). La metodica è invariante, specie se si tratta di pubblica azienda.
In forma del tutto anonima, è riportato qui di seguito uno dei commenti che circola tra ex-Enel e pensionati "sindacalizzati" che ancora detengono una discreta parte delle azioni Enel e a cui Starace dovrebbe essere più "attento":

"Il recente intervento alla LUISS  dell' A.D. dell'Enel Starace, appare di inusitata gravità per il suo contenuto diretto deliberatamente a creare un clima di terrore nel management e nel personale ai vari livelli come dimostrano le interrogazioni parlamentari già presentate al riguardo. E' anche evidente che la posizione espressa dall' A.D. Starace solleva evidenti problemi di democrazia sindacale, tanto più che lo stesso sta già ponendo in essere nell'azienda il suo intento, come tale ormai neppure più a livello meramente programmatico. E' parimenti evidente la gravità di tale programma di azione diretto ad abbattere radicalmente le attuali strutture manageriali che, oltretutto, è in totale contrapposizione con l'evoluzione delle più moderne organizzazioni di lavoro che si sono andate via via affermando su base scientifica e universitario alla cui "popolazione" era paradossalmente diretta la "lezione di Starace". E' noto infatti che non solo a livelli scientifico e dottrinario si sono sempre più affermati modelli "partecipativi" e  "coinvolgenti"  come quelli più idonei ad ottimizzare e responsabilizzare le odierne organizzazioni aziendali col definitivo ripudio dei vecchi modelli autoritaristici. A fronte della situazione di grave disagio e preoccupazione venutasi a determinare nel management, nei quadri, e nel restante personale della Società, è  opportuno chiedere una tempestiva  ed energica presa di posizione anche nei confronti del Governo oltre che della controparte al fine di porre un argine ed un efficace rimedio verso un programma di azione che sta sconvolgendo dirigenti e quadri con gravi ripercussioni nell'andamento della Società."

Ma, la metodica tracciata da Starace è anche prova dell'adesione ad un codice deontologico che è espressione delle "forze dominanti", dei "poteri forti" che decidono dei destini del mondo e per tale ragione - si perdoni il cinismo , lo si voglia o meno - ciò significa che l' "Uomo è destinato a crescere"!  

sabato 28 maggio 2016

“Le lacrime di Occhetto”: Rinasce il PCI?

Lo annuncia un articolo odierno di La Repubblica; vedi
Sembra impossibile ricordando le “Le lacrime di Occhetto”! Rinasce il PCI? Ma dove sono stati fino ad oggi!  Aldilà delle preferenze e degli schieramenti politici una spiegazione al riguardo la devono a tutti gli Italiani!
Subito il pensiero corre alla caduta del muro di Berlino, fors’anche perché è “naturale” dopo aver letto nel lavoro di Chomsky una vecchia citazione del Presidente Malese Mahathir riguardante lo stesso evento :
“Paradossalmente, la più grande catastrofe per noi, che siamo sempre stati anticomunisti, è stata la sconfitta del comunismo. La fine della guerra fredda ci ha privato dell’unica leva di cui disponevamo: la possibilità di defezionare. Ora non ci possiamo rivolgere a nessuno”. Non proprio un paradosso, ma il corso naturale della storia mondiale reale, come Chomsky fa puntualmente rilevare.
Un’analoga sindrome certo colpì – in quella circostanza di “abbattimento e cambiamento” - la politica nostrana, proprio mentre a sinistra ci si affrettava a buttare via l’acqua sporca, insieme al bambino, tutto intero. Infatti, in pochissimo tempo, in politica economica e non solo, piuttosto che convergere su posizioni di tono keynesiano che avevano da sempre caratterizzato il laburismo anglosassone, abbiamo assistito da parte della maggioranza della sinistra al rinnegamento delle dottrine professate fino a poco tempo prima della caduta del muro di Berlino. Ma questo naturale atteggiamento, che caratterizzò anche Pietro nella notte in cui Cristo fu tradito, non si limitò a restare tra le contingenze, perché da li a poco avremmo dovuto assistere anche alla “conversione al capitalismo liberista internazionale”. Questa conversione, vera o strumentale che fosse, si spinse progressivamente fino ad abbracciare il liberismo più sfrenato che osannava al libero mercato senza condizioni, dimenticando ogni forma minimale di coerenza e di continuità rispetto al passato, che avrebbe obbligato ad atteggiamenti più cauti e ponderati, se non altro per rispetto di quelle “masse” sfruttate ed indifese in nome delle quali la sinistra si era fregiata per anni dei simboli del lavoro. Si trattò di un processo talmente fuorviante che gli echi della confusione generata risuonano ancor oggi allorquando ci si pongono domande sui contenuti caratterizzanti le politiche di sinistra rispetto a quelle di destra, piuttosto che di centro: argomento dove regna sovrana la mistificazione finalizzata all’accaparramento, come mostrano i più recenti episodi di corruzione, più estesi e più gravi di quelli che portarono alla fine della prima repubblica. Ciò accade – come ci dicono antichi e dimenticati Libri - allorquando si dà “ciò che è santo” a cani e porci, che in quanto tali saranno solo in grado di calpestarlo! Così siamo giunti ad oggi!
Politiche che vedono la preminenza di uno stato “regolatore” ispirato a principi di equità e giustizia sociale, o teorie economiche che mirano idealmente a situazioni di equilibrio implicanti piena occupazione o quasi, e quindi sposano l’etica che soggiaceva ai principi fondanti della carta costituzionale, sono ormai respinte e classificate come “inaccettabili”, “obsolete”, “risibili”, proprio quando - in un momento di crisi - sarebbero invece essenziali, salvifiche, risolutive. Tutto ciò avviene in un contesto tutto italiano di cessione di sovranità monetaria e fiscale all’Europa, realizzata con strumenti tutt’altro che tipici della democrazia; unica giustificazione : una presunta pulsione verso una unità europea; unità che se veramente si fosse voluta si sarebbe potuta realizzare con approcci federativi, mentre da oltre mezzo secolo non avanza, perché è ancora presente la volontà di volgerla a proprio vantaggio e a scapito altrui, come mostrano i fatti (vedi Grecia e paesi GIPSI, o PIIGS che dirsivoglia!) cui assistiamo. Eppure lo slogan di quella che oggi si definisce sinistra è : “la scommessa sull’Europa”, priva di senso critico e chiarezza di idee, tesa com’è verso la conquista di un consenso che non è consenso!
Ma è proprio anche di un “consenso senza consenso” di cui parla Chomsky nella parte più politica dei sui scritti qui citati.
Ma chi è veramente Noem Chomsky?
Nato nel 1928, di origini ebraiche russe, sebbene conosciuto prevalentemente come linguista ed esponente della cultura universitaria americana, è stato professore e ricercatore al MIT ed è da molti ritenuto una pietra miliare nello sviluppo delle Scienze Cognitive, avendo il suo punto di vista dominato a lungo, almeno nel periodo iniziale, negli studi sull’Intelligenza Artificiale.
Non si può resistere alla tentazione di riportare nel seguente “Estratto” , in modo sequenziale e con le parole originarie dell’autore, alcune considerazione che possono essere illuminanti sui temi qui sopra trattati.
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Estratto da
Linguaggio e Politica– Riflessioni sul mondo dopo l’11 settembre
(di Noam Chomsky - edito da Di Renzo Editore – Roma – 2011)
  1. Vi sono due versioni della teoria del libero mercato: la prima si basa sulla dottrina ufficiale, la seconda su quella che potremmo chiamare “la dottrina del libero mercato realmente esistente” per la quale la disciplina del mercato va bene per gli altri, ma non per me. La dottrina ufficiale è imposta sugli indifesi, ma è quella “realmente esistente”.
  2. L’invasione da parte dell’occidente nel 1918 fu dunque un’azione difensiva per proteggere “il benessere del sistema capitalistico mondiale”, minacciato dai cambiamenti sociali all’interno di quell’area di servizio; così il fenomeno è stato descritto in noti studi. La logica fondamentale della guerra fredda fa parte del contesto generale del conflitto nord-sud .
  3. Come hanno fatto l’Europa e le nazioni che sono sfuggite al suo controllo a svilupparsi? Violando radicalmente la dottrina del libero mercato. Tale conclusione è valida per i casi dell’Inghilterra fino all’attuale crescita economica dell’Asia orientale e certamente anche per gli Stati Uniti, fin dalle origini leader del protezionismo.
  4. Gli standard della storia economica riconoscono che l’intervento statale ha giocato un ruolo centrale nella crescita economica, ma il suo impatto è stato molto sottovalutato a causa dell’angusta concentrazione del protezionismo.
  5. Nel 1996 il Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Umano sottolinea la “vitale importanza” delle politiche governative volte a “propagare le specializzazioni e a contribuire ai bisogni sociali fondamentali”, come “trampolino di una crescita economica sostenuta”. Le dottrine neoliberiste, qualsiasi cosa se ne possa pensare, minano l’istruzione e la sanità, aumentano le disparità sociali e riducono la quota del reddito nazionale destinata alla forza lavoro: su questo non c’è dubbio. Di conseguenza, tali politiche indeboliscono proprio quei fattori che, come si ritiene universalmente, sono alla base di una crescita economica sostenuta.
  6. Il paragone tra l’Asia orientale e l’America Latina è impressionante: questa detiene il peggiore record mondiale per quanto riguarda le diseguaglianze sociali, quella il migliore; lo stesso discorso vale per l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale in genere.
  7. Nel 1846 l’Inghilterra adottò infine il liberismo internazionalista, dopo che centocinquant’anni di protezionismo, violenze e potere statale le avevano assicurato un grandissimo vantaggio su tutti i concorrenti.
  8. Un secolo dopo che l’Inghilterra aveva accettato il liberalismo internazionalista, gli Stati Uniti seguirono la stessa strada. Dopo centocinquant’anni di protezionismo e violenza, essi erano diventati il Paese di gran lunga più ricco e più potente del mondo.
  9. Il programma statunitense di aiuti, chiamato “cibo per la pace” , fu usato anche per sostenere i progetti nel settore agricolo e navale ed estromettere dal mercato i produttori stranieri.
  10. In altre parole, i principi del libero mercato funzionavano, ma con risultati opposti e, come per la democrazia, i mercati sono giudicati in base ai risultati , non per il modo in cui procedono.
  11. Le eccezioni più importanti sono almeno tre. Una componente fondamentale della teoria del libero commercio è che i sussidi pubblici non sono permessi; ma, dopo la seconda guerra mondiale, i più importanti uomini d’affari statunitensi avevano previsto che l’economia sarebbe crollata senza il massiccio intervento statale che avevano imparato ad apprezzare durante la guerra. Insistettero anche sul fatto che un’industria avanzata “non poteva sopravvivere in una pura, competitiva e non sostenuta economia di free enterprise” e che “solo il governo poteva essere il loro salvatore”.
  12. Come tutti comprendono perfettamente, la free enterprise paghi i costi e sopporti i rischi, se le cose vanno male: cito per esempio i salvataggi delle banche e società che sono costati ai conti pubblici centinaia di miliardi di dollari negli ultimi anni, a livellivello del Sud America. I profitti devono essere privattizzati, ma i costi devono essere sostenuti dalla collettività.
  13. Per illustrare “la vera teoria del libero mercato” in un’ottica differente, lo studio più completo delle cento migliori TNC (Trade National Companies) ha mostrato che almeno venti “non sarebbero sopravvissute come compagnie indipendenti, se non fossero state salvate dai loro rispettivi governi”, addossando alla collettività le perdite, o mediante intervento diretto dello Stato, qualora fossero in maggiori difficoltà.
  14. Lo stesso studio citato sottolinea che “non c’è mai stato un gioco alla pari nella concorrenza internazionale e si nutrono forti dubbi se mai ci potrà essere”. L’intervento del governo, che ha costituito “la regola piuttosto che l’eccezione negli ultimi due secoli[…],ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo e diffusione di molti prodotti e di molti processi innovativi, soprattutto nel settore aerospaziale, dell’elettronica, della moderna agricoltura, delle tecnologie dei materiali, dell’energia e della tecnologia dei trasporti”, così come nelle telecomunicazioni, nelle tecnologie dell’informazione in genere e, tempo fa, nel settore tessile e siderurgico. Letteralmente, “le politiche governative, in particolare i programmi per la difesa, hanno sempre avuto una forza schiacciante nel definire le strategie e la competitività delle maggiori compagnie a livello mondiale”. Altri studi tecnici confermano tali conclusioni.
  15. Se ci impegneremo a distinguere tra dottrina e realtà, scopriremo che i principi di politica e di economia che hanno prevalso sono ben distanti da quelli proclamati. Si può essere scettici riguardo alla rosea previsione che essi siano “l’onda del futuro” che ci porterà più vicino alla “fine della storia” in una sorta di utopia dei padroni.

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All’origine di queste riflessioni si ritrovano gli elementi di fondo di quella crisi economica, monetaria e finanziaria che sta attraversando il mondo occidentale e che sembra essere solo una parte del “vero problema”. In diversi ambiti si nutre la convinzione che la crisi sia l’espressione di una più profonda disintegrazione di quei valori etici (vedasi ad esempio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber) che hanno accompagnato la nascita e l’affermazione della civiltà occidentale sino al punto da farne un riferimento per il mondo intero. Uno storico ci ricorderebbe che l’impero romano crollò allorquando ci fu un allentamento, prima, e perversione dei costumi e della morale, poi. I sistemi democratici occidentali appaiono, oggi, in profonda decadenza e lo sperimentano gli Italiani attraverso la “sospensione della democrazia” che ha imposto di necessità un “governo tecnico”; lo sperimenta il paese attraverso il crollo di credibilità delle istituzioni e soprattutto della politica, che sembra sprofondare giorno dopo giorno sulla spinta di scandali e abusi generalizzati. Qualcuno ha ipotizzato che la tangentopoli della prima repubblica, avendo “scoperchiato la pentola” e mostrato a tutti l’esistenza di una “mangiatoia pubblica”, avesse quasi di fatto autorizzato chiunque ad assumere analoghi corrotti comportamenti, giustificabili in virtù della “consuetudine”, che in campo giuridico – come noto – può assumere valore di “norma”. La rappresentanza e rappresentatività della classe politica è di fatto azzerata e si nutrono - a ragione! - preoccupazioni per le prossime elezioni che possono avere diretto riflesso sulla stabilità e tenuta generale del paese. Ma il sentimento più diffuso nella popolazione consapevole della gravità della situazione si può riassumere nell’imperativo categorico per il quale è stato coniato il termine : “derattizzare la politica”. Il vero rischio è che l’elettorato astensionista, già a livelli di guardia (si parlava sinora del 40%), può ampliarsi e portare la parte votante ai livelli “minoritari” del 30-40% come in altre “democrazie occidentali”. Sarebbe in tal caso la vittoria del “consenso (di una parte minoritaria) senza il consenso (della vera maggioranza)”, concetto che si ritrova negli scritti di Chomsky come “metodo” della democrazia qualora distinguessimo i teorici desiderata dalle prassi che si realizzano nel concreto.
Avverte Chomsky : “Dagli anni ’50, le multinazionali estere hanno controllato quote sempre maggiori della produzione industriale” e sono proprio le multinazionali che si sostituiscono sempre più agli stati nel governo delle nazioni, in un mondo globalizzato che lascia presagire l’attuazione di quel mondo orwelliano attraverso la messa in pratica di una ben descritta “teoria e prassi del collettivismo oligarchico”.

Ma siamo giunti qui all’improvviso? Oppure qualcuno che avrebbe dovuto non ha vigilato? E’ ipotizzabile che le ambizioni di governo cui ha ceduto una sinistra impreparata e meglio attrezzata per il “controllo” – svendendo i propri ideali e disprezzando storicamente un ruolo d’opposizione intelligente – abbia fortemente contribuito a condurci qui dove siamo? Dov’è l’esercizio dell’autocritica di un tempo, negletta per mera questione di interessi, spesso personali? Coloro che si sono “macchiati” possono essere “riammessi nel tempio”? Forse tutti abbiamo dimenticato ciò che implica la “responsabilità”! L’errore, la colpa devono essere riconosciuti ed espiati! Solo successivamente è ipotizzabile, e comunque non garantito, il perdono!

RICOSTRUIRE LA DC? - RIFLESSIONI DI UN EX DEMOCRISTIANO - di Ettore Bonalberti

Chiarezza sulle nostre scelte

Un amico che punta a costruire “un partito cattolico”, su facebook mi attribuisce l’idea di voler ricostruire la DC.  Trattasi di una lettura superficiale di ciò che da anni, con altri amici, sto perseguendo come progetto politico.

In alcuni saggi scritti negli scorsi anni ( “ L’Italia divisa e il centro che verrà”, “ Dalla fine della DC alla svolta bipolare”, “ ALEF: Un futuro da liberi e forti”) avevo sintetizzato così le  ragioni della fine politica anche se non giuridica della DC:

la DC è finita per aver raggiunto il suo scopo sociale: la fine dei totalitarismi di destra e di sinistra contro cui si era battuto il movimento dei cattolici in un secolo di storia;

la DC è finita per il venir meno di molte delle ragioni ideali che ne avevano determinato l’origine, sopraffatta dai particolarismi egoistici di alcuni che, con i loro deteriori comportamenti, hanno coinvolto nel baratro un’intera esperienza politica;

la DC è finita per il combinato disposto mediatico giudiziario che l’ha travolta insieme agli altri partiti democratici e di governo della Prima Repubblica;

la DC è finita quando sciaguratamente scelse la strada del maggioritario, per l’iniziativa improvvida di Mariotto Segni, auspice De Mita in odio a Craxi e Forlani, abbandonando il tradizionale sistema proporzionale che le garantiva il ruolo centrale dello schieramento politico italiano.

E, soprattutto, ed è la cosa più grave e incomprensibile, la DC è finita senza combattere. Con una parte, quella anticomunista, messa alla gogna giudiziaria, e quella di sinistra demitiana succube e imbelle alla mercé dei ricatti della sinistra giustizialista.

E concludevo affermando che “la DC è finita e nessuno sarà più in grado di rifondarla”, consapevole che la nostalgia, nobile sentimento romantico, ma regressivo sul piano politico, culturale ed esistenziale, può rappresentare un fattore servente, forse necessario, ma, certo,  non sufficiente per ricostruire alcunché.

Una sentenza a sezioni civile riunite della Cassazione ( sentenza n. 25999 del 23 dicembre 2010) ha sancito, tuttavia, che la DC non è mai morta, il de cuius non esiste perché non è defunto e non c’è alcun erede universale o particolare del partito dello scudocrociato. Esso andava chiuso solo dai legittimi detentori di quel potere in un’associazione di fatto: gli iscritti secondo le regole del proprio statuto e quelle inerenti alle associazioni di fatto senza personalità giuridica.


Ecco perchè abbiamo scelto di riaprire un nuovo capitolo nella storia dei cattolici nella politica italiana, non per ambizione personale, poiché, come diceva Voltaire, siamo ben consapevoli che alla nostra età “ non possiamo che offrire dei buoni consigli, dato che non siamo nemmeno più in grado di dare dei cattivi esempi”, quanto per consegnare alle nuove generazioni il testimone di una storia politica che ha segnato una fase importante della nostra amata Repubblica.

Ettore Bonalberti

giovedì 26 maggio 2016

Un’analisi della AEI : la Germania dovrebbe lasciare l'Euro?

Un’analisi della AEI (American Enterprise Institute) secondo cui l'Europa deve scuotersi liberandosi dal vincolo valutario che ha condannato a scarse performance economiche.
Da un lato lo straordinario surplus della bilancia commerciale tedesca che ha superato l’8% del PIL e dall’altro lato la debolezza dell’economia italiana, vero tallone d’Achille,  che deve mettere in discussione la redditività di lungo periodo dell’euro, suggeriscono che un modo per uscire dal nodo gordiano creatosi sia che la Germania abbandoni l’euro e recuperi la sua propria moneta in grado di apprezzarsi da sola senza coinvolgere le altre economie più deboli del sud-europeo.

Questo sarebbe per la Germania – a giudizio degli analisti AEI - un modo concreto per affermare la sua leadership in Europa.

Vedasi :

SPERANZE DALL'UNGHERIA PER UN NUOVO GRANDE PASSO DELLA FISICA?

La tradizione magiara sull'ipotesi dell'esistenza di una "quinta forza" in fisica risale fino a  
Loránd von Eötvös (fine '800 - inizi '900) con i suoi esperimenti sulla equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale, allorquando si formulò una congettura sull'esistenza di una "quinta forza". Ancora oggi si riporta su libri di fisica un grafico sui dati di Eötvös (vedi H.C. Ohanian - R. Ruffini - Gravitazione e Spazio tempo - Ed. Zanichelli  - 5^ ristampa 2002 -  pag. 35) sulla differenza frazionaria tra le accelerazioni di coppie di masse in funzione della differenza nel loro numero barionico. Nello stesso testo di fisica sopracitato si riporta che nel 1986 Fischbach et al. pubblicarono un nuovo esame dei dati di Eötvös che suggeriva l'esistenza di una interazione aggiuntiva. I dati sembravano indicare che la sorgente di questa quinta forza dovesse essere il numero barionico. Gli argomenti di Fischbach portarono ad un fermento di attività sperimentali con parecchi gruppi alla ricerca della quinta forza, ma soltanto 2 esperimenti su una quindicina tra il 1986 e il 1990 mostrarono un effetto positivo rilevando la presenza di una "quinta forza".

Oggi 25/5/2016 un articolo di La Repubblica evidenzia che :

DA UN LABORATORIO UNGHERESE SPUNTA LA QUINTA FORZA FONDAMENTALE

Un nuovo tipo di interazione oltre quelle gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte e debole: sarebbe stata scoperta dai ricercatori dell'Istituto di fisica nucleare di Debrecen. Scettici al Cern: "Esperimento da verificare".

Si tratterebbe di un bosone responsabile delle interazioni a corto raggio (su distanze poco più grandi del nucleo atomico). 

Per saperne di più:

Per le persone comuni :
http://www.repubblica.it/scienze/2016/05/25/news/modello_standard_forze_fondamentali_cern_lhc_particelle_fondamentali_materia_oscura_bosone-140567449/?ref=HREC1-18

Per gli specialisti :
http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.116.042501

mercoledì 18 maggio 2016

Un contributo di analisi e approfondimento per gli “Stati Generali di Sovranità Popolare”

Assemblea Nazionale del 22 Maggio 
Istituto S.Orsola, Via Livorno 50 - Roma

1.       UNA RADICE COMUNE

Pur senza titolo di rappresentanza da parte di alcuna delle Associazioni con cui è stato iniziato questo percorso, si sente l’obbligo d‘essere  con Voi e di offrire con spirito responsabile un contributo di riflessione comune e di approfondimento.
Sebbene con tutti i distinguo che caratterizzano le diverse storie e posizioni (e ce ne sono molti!) si è spinti verso l’opportunità oggi offerta di esprimere solidarietà e condivisione dei sentimenti che ci animano tutti.
Nella diversità, un unico sentimento ci muove, perché vogliamo in fondo la stessa cosa : difendere la nostra Carta Costituzionale; perché soggettivamente o oggettivamente che sia,  la percepiamo in pericolo; perché la riteniamo rappresentativa della nostra civiltà, della nostra cultura e del nostro Paese; perché siamo animati dallo stesso imperativo: difendere un Bene Comune che ci appare  compromesso da fatti recenti e da comportamenti politici o avvenimenti economici e finanziari che riteniamo disallineati da quanto la stessa Carta Costituzionale avrebbe richiesto. 
Per queste ragioni, pur senza essere esperti costituzionalisti, ci siamo interrogati e abbiamo trovato chi ha posto la sua esperienza a servizio di coloro che si pongono le nostre stesse domande, anche nella diversità delle risposte e degli approcci per i rimedi necessari.
Se un merito ha avuto questa crisi che ci attanaglia da diversi anni è l’aver risvegliato in noi tutti un sentimento  assopito nel tempo : l’amore e la responsabile preoccupazione per il nostro Paese, per il suo futuro nel Mondo, per ciò che esso rappresenta per ciascuno di noi; per la necessità di una speranza, specialmente per le generazioni che verranno; per quegli stessi figli d’Italia che si sono incamminati su percorsi artigianali, professionali ed intellettuali e oggi sono costretti a migrare non più per un lavoro di rilievo, ma per la semplice sopravvivenza che l’Italia, purtroppo, non riesce più ad assicurare.
Senza voler polemizzare, c’è da domandarsi  se sia ancora necessaria una dichiarazione d’indipendenza; perché la storia ci testimonia che essa c’è già stata. C’è stata con le guerre combattute dai nostri padri per riscattarci da quei poteri in Europa che per loro convenienza ci hanno sempre voluti “calpesti e derisi”. C’è stata sulle montagne del Carso per impedire allo straniero il passaggio del Piave, salvo poi subire una “pace tradita” e sfociare in un regime che, per mire espansionistiche o per difesa, ci ha comunque ricondotto in una seconda guerra mondiale che ha visto l’orrore dell’Olocausto e delle leggi razziali. L’esplicita dichiarazione d’indipendenza c’è già stata con il sacrificio dei nostri padri che hanno subito con onore la guerra sul fronte russo o africano,  la prigionia e la deportazione per difendere la nostra terra; c’è stata con il sacrificio di coloro che per l’incolumità di se stessi e delle proprie famiglie hanno accettato - pur su fronti opposti - il reclutamento nella Repubblica di Salò oppure tra le file dei partigiani che hanno animato la Resistenza e la Liberazione.
Pensiamo di saper bene da dove la crisi attuale giunge. Ma, forse, non è difficile dire per l’uomo comune se siamo in questa crisi profonda per le eventuali carenze che la Carta Costituzionale può aver mostrato nel tempo o se a causa di  qualcuno o qualcosa di più profondo che nel fluire del tempo e nel mutare dei valori ha mutato natura, sospinto da un interesse individuale che ha fagocitato l’interesse collettivo, che ha sostituito il conflitto alla ricerca del bene generalizzato , per paura di perdere l’egemonia e i privilegi acquisiti. Eppure i Padri ce l’hanno lasciato scritto in chiaro nel nostro dna-fondativo:
“Da sempre noi fummo calpesti e derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi”.
Non è forse proprio questo che occorre recuperare? La “consapevolezza dell’epoca costituente”, allorquando l’avversario, nel gioco di una democrazia condivisa,  era ritenuto essenziale per il suo ruolo d’opposizione e comunque stimato per la sua integrità e dedizione nel tendere al Bene Comune,  a prescindere dagli orientamenti e posizioni nel Parlamento. Occorre recuperare la convinzione che la provenienza da un credo comunista, liberale o cristiano possa  comunque condurre ad agire per il bene di un Popolo in cammino; popolo che guidato dalla sua millenaria cultura, pur nella frammentarietà, ha di fatto mostrato i suoi valori nelle sue scelte di fondo, nella capacità di ricostruzione e nel boom economico; quello della cinquecento e seicento Fiat, della lambretta, dell’Olivetti, dell’IRI e del perseguimento di un’intrapresa famigliare, evidenziando la straordinaria produttività di un tessuto di piccole e medie imprese ancora presenti, accanto ad eccellenze come la Ferrari, la Cogne e la siderurgia nazionale, la chimica e la farmaceutica di spicco, la ricreata credibilità in Europa che ha permesso di essere tra i paesi fondatori, prima della CECA, fino a giungere all’odierna UE. Tutto ciò, sebbene tra le manovre di Gladio da un lato e del KGB dall’altro, ha mostrato le potenzialità di un popolo che sono man mano state volontariamente ridimensionate a partire dalla caduta del Muro di Berlino, in nome di un progetto universalista che pensa di poter fare a meno della democrazia e del diritto di determinazione dei popoli, dei diritti umani  e della solidarietà che necessariamente sottendeva il progetto di una Società delle Nazioni e di una fratellanza universale. Siamo così giunti ai nostri giorni e alla necessità di “Ripensare l’Europa”.

2.       RIPENSARE L’EUROPA

Ispirata a una visione liberista che vede nell’intervento dello Stato un’indebita intromissione nel libero scambio e nella libertà d’impresa necessari all’economia, l’Unione Europea - evitando accuratamente di riaffermare nella propria Costituzione le proprie radici giudaico-cristiane - si è strutturata intorno ai concetti di libera circolazione delle merci, dei capitali, delle persone, dei  servizi, del lavoro.
La globalizzazione dei mercati ha fatto crollare i muri e rimossi i fili spinati eretti dopo Yalta, non solo per motivi economici e di sovranità su un territorio. Grazie alla diffusione della tecnologia elettronica ed informatica si è realizzato quel “villaggio globale” che il sociologo canadese Marshall Mc Lhuan aveva intravisto e predetto anzitempo.
In oltre mezzo secolo dai trattati di Roma, nonostante le evidenti potenzialità che un’impostazione liberoscambista può portare con sé, sono chiaramente emersi i limiti di un estremismo liberista senza controllo, i quali non hanno però impedito all’Europa di godere un lungo periodo di pace e di sviluppo, dagli anni dei primi trattati post-bellici sino ad oggi; cosicché l’Unione Europea si è posta di fronte al mondo come esempio di speranza per l’umanità tutta.
 Allo stesso modo, la “globalizzazione non governata” ha prodotto acutizzazione delle differenze, crisi politico-economiche diffuse e sconquassi di ordini preesistenti, mostrando limiti che non hanno, però, impedito all’umanità di rendersi consapevole dell’intimo legame a un comune destino su questo pianeta, dove l’azione di una parte di umanità si ripercuote in modo evidente sull’altra parte; dove le risorse disponibili devono necessariamente essere condivise senza sprechi in un’ottica di salvaguardia del creato e a beneficio delle generazioni a venire.
Poi è giunta la crisi del 2008 difficilmente inquadrabile in contesti ciclici dell’economia, ma con una genesi ben individuabile nella finanza internazionale. Essa, con i suoi connotati pseudo-strutturali che è venuta man mano assumendo, ha sollevato interrogativi molto seri sul processo d’integrazione europeo che va avanti dalla fine della seconda guerra mondiale.
Cosicché i popoli europei - e non i governi (cosa che ha indotto crisi di rappresentanza nelle politiche nazionali con aggravamento della sfiducia nelle istituzioni già compromesse) - hanno incominciato ad interessarsi ed interrogarsi sui risultati del processo d’integrazione e sulla vera natura della struttura politico-burocratica messa in piedi a Bruxelles per la costruzione dell’Unione, che peraltro  assorbe cospicue risorse. Così gli Europei hanno scoperto come nonostante sia trascorso mezzo secolo nel lavorio d’integrazione il Consiglio Europeo continua a somigliare più ad un agglomerato sporadico di Capi di Governo nazionali, piuttosto che ad un Organismo Esecutivo dell’Unione. Peraltro, il processo decisionale del Consiglio è apparso sbilanciato dal peso degli interessi dei paesi più “forti” e che “più contano” offuscando la formazione delle decisioni da assumere in un’ottica di “servizio”, sempre ed esclusivamente, in funzione del bene comune dei Popoli dell’Unione. Essi hanno potuto anche constatare come il  Parlamento Europeo eletto attraverso un processo democratico permane marginale e spesso subordinato ad una Commissione insediata attraverso “sistemi” percepiti come “poco chiari”, che si prestano a quella facile critica verso i membri della Commissione:  “maggiordomi scelti per il banchetto delle banche”.
Tenuto conto degli effettivi ed evidenti risultati conseguiti nella libera circolazione delle persone, i popoli europei si sono anche interrogati circa il grado d’integrazione che hanno effettivamente raggiunto e alcuni ritengono di aver scoperto che l’integrazione effettiva (specie nel campo dei servizi, ma non solo) è oggi più bassa di quella preesistente negli anni 80 allorquando si aveva come obbiettivo l’Europa del 92.
Interrogativi ancora più seri li ha sollevati l’euro; moneta unica adottata dall’Unione Europea senza che si fosse ancora consolidato il processo unificatore in atto. In molti paesi dell’Unione – come pure nel nostro - si sono, così, sviluppati consistenti movimenti politici contrari all’euro e talvolta non solo a questa Europa, bensì contrari allo stesso ideale di un’Europa Unita. Tali movimenti sono nati oggettivamente, ancorché dalla strumentalizzazione del malcontento a fini politici, dalla diffusa percezione di una sorta di “tradimento” delle impostazioni che i Padri Fondatori dell’Europa (e a questo riguardo riemergono i nomi di tre cattolici : Adenauer, De Gasperi, Schuman) avevano delineato per quell’Europa cui essi anelavano in una prospettiva di bene comune. Insomma, oggi s’invoca “un’Europa dei Popoli e non un’Europa delle banche” mentre si depreca “una moneta senza Stato, con interi Stati senza moneta”; considerazioni che sempre più spesso si ascoltano nei discorsi di comuni cittadini, sedicenti “delusi” per la divaricazione delle differenze prodotte dai tentativi d’integrazione e per la disattesa perequazione delle diseguaglianze regionali che sarebbe stata, invece, necessaria.
Appare difficile contestare opinioni formatesi dinanzi ad una recente mappa monetaria dell’Europa con un nord a tripla A che induce tensioni nei “paesi barriera” a tripla B, la cui funzione di “periferia cuscinetto” è apparsa essere quella di argine per sostenere l’urto, specie migratorio, e non turbare il privilegio del “centro”. Per di più, se si evidenzia che ad esclusione della Germania, solo i Paesi Membri dell’Unione che hanno conservato la propria moneta nazionale hanno condizioni economiche da tripla A, allora diviene comprensibile la critica alla moneta comune che poggia sulla rivendicazione di una perduta sovranità monetaria nazionale di cui si incolpa la politica. Questa critica è talvolta mossa, da movimenti estremisti o nazionalisti, ancor più alla politica europea sostenendo che i paesi del sud europeo, guarda caso tutti di religione cattolica, li si vuole necessariamente tenere - attraverso “giochi di finanza internazionale” - in uno stato di sudditanza economico-finanziaria li dove sono stati collocati. In questo modo si giunge a “tesi complottiste” che sfociano e si ricongiungono alle critiche alla globalizzazione, in quanto progetto che punta ad egemonizzare il potere politico-economico globale attraverso il potere finanziario e le speculazioni che esso è in grado di operare in sinergia con la creazione di aree transatlantiche e transpacifiche di libero scambio.
Cosi, in linea con dette tesi, sotto i colpi della finanza speculativa, le parti più sviluppate si sviluppano sempre di più e quelle meno sviluppate implodono su se stesse sino alla crisi. Lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: le politiche di promozione e sostegno allo sviluppo possono apparire, specie ai più “efficienti”, sempre insufficienti e dispersive; se non, nel caso peggiore, vengono assimilate ad un sistema di errato assistenzialismo, che piuttosto di promuovere efficienza ed attivismo, induce un’irreversibile inedia industriale, costantemente in attesa della prossima tranche di aiuti dovuti in nome della solidarietà. Ciò, occorre riconoscerlo, è talvolta già avvenuto proprio da noi con la stessa Cassa del Mezzogiorno. E simili sentimenti sono stati nutriti qua e là in Europa nel corso della crisi greca. Ma, non si tratta di assistenzialismo soltanto; occorre ammettere con onestà l’esistenza di cause che privano i territori in crisi di disponibilità, di strumenti concreti e di  auto-responsabilità  nella gestione delle situazioni avverse che essi stessi non hanno contribuito a determinare.
Guardando invece una mappa monetaria a livello globale insieme ai dati quantitativi delle riserve circolanti si nota la scarsa significatività dell’euro rispetto al dollaro e qualora le tesi complottiste avessero un minimo di fondamento allora “la guerra delle valute” non sarebbe neanche da combattere, perché è già stata perduta. Ciò appare evidente anche perché una eventuale leadership europea presupporrebbe non soltanto “capacità di testa”, che innegabilmente vi sono, ma anche di “cuore”, che altrettanto innegabilmente non sono affatto emerse nel corso della crisi greca; in cui un intervento sostanziale in fase iniziale avrebbe certamente evitata o comunque mitigata la crisi stessa. Abbiamo assistito, invece, ad esiti in cui – secondo autorevolissimi pareri di politici nazionali – le diverse tranche di aiuti erogate dall’Europa alla Grecia non sono andate affatto a sostenere la crisi del Popolo Greco, ma sono servite ad erogare gli interessi maturati sul debito greco per effetto degli alti tassi di interesse indotti finanziariamente.
La crisi Greca, dunque, e soprattutto il problema delle migrazioni, poi, hanno messo e stanno mettendo a dura prova la coesione dell’UE. Gli inattesi ed imprevedibili movimenti di masse di migranti rappresentano una sfida in particolare per i paesi europei a divenire promotori dello sviluppo nelle aree più remote del globo, dove masse di diseredati (3,5 miliardi, si calcola) vivono a livelli di sussistenza, con meno di due dollari al giorno, senza accesso all’acqua, all’elettricità ai servizi essenziali conformi alla dignità umana. In tutto questo, come pure nella destabilizzazione di governi “autocratici” per sostituirli con governi “democratici”, si ravvisano le cause di conflitti locali, ma pur sempre devastanti, che producono milioni di profughi a casa propria e che, insieme alla disperazione di chi cerca una condizione di vita più dignitosa, alimentano il flusso di migrazioni sotto i nostri occhi. Queste migrazioni assumono, quindi, i connotati di una sottile arma di guerra a spese dei poveri del mondo, che tra lo sfruttamento di mafie organizzate e quello di un sistema economico che li usa per esercitare una pressione negativa sui salari, fanno sì che ci si contenda e si generalizzi il lavoro precario o “poco dignitoso”, capace di offrire solo una misera sopravvivenza.
La distruzione sistematica di potenzialità industriali, in una sorta di guerra di vicinato, tra nazioni “civili” e sedicenti “amiche”, si accompagna alle restrizioni al credito da parte del mondo finanziario. Esso, piuttosto, alimenta se stesso e sfrutta le tecnologie dell’High Frequency Trading  e privo di ogni controllo da parte degli Stati nazionali, ridotti ormai al silenzio da una rete multinazionale,  ha fatto un tutt’uno di casse di risparmio, banche commerciali e banche d’investimento e d’affari, mettendo in difficoltà la vera intrapresa (agricola industriale, o dei servizi) unica creatrice di ricchezza. In questo contesto le paure autentiche, indotte o simulate, da parte dei “mercati” sui “debiti sovrani”, insieme agli strumenti finanziari derivati creati ad arte e la volatilità dei titoli, divengono strumenti di arricchimento di una élite oltre che il possibile innesco di crisi globali, mentre anche nelle società più avanzate si evidenzia una netta diminuzione del monte salari rispetto al PIL, implicante una marginalizzazione del lavoro nei processi produttivi.
In questo clima generale di depressione, si è dovuto anche assistere nei paesi colpiti, come il nostro, al triste fenomeno della disoccupazione intellettuale e giovanile. Nuove generazioni di giovani e di  laureati, speranza delle loro famiglie e dello Stato che li educano, migrano per avere un semplice lavoro che dia loro dignità. Eppure in questo clima, misere esistenze di rifugiati e migranti, divenute oggetto di sfruttamento, sono accolte dalle Regioni del Sud d’Europa che hanno i loro stessi figli senza lavoro e sempre più spesso senza futuro. E' evidente che  in tutte le economie più avanzate del mondo, ove si registra una tendenza stabilizzata di riduzione della quota salari rispetto al PIL, le classi meno abbienti plaudono ed approvano l'investimento industriale e avversano o condannano (quando non demonizzano addirittura) l'investimento finanziario. Ma, perché diminuisce la quota salari rispetto al PIL? E' forse finito il "lavoro" nel Mondo? Certamente no! Basti pensare a cosa e quanto c'è bisogno ancora da fare nel campo della protezione e salvaguardia dell'ambiente, del territorio e del mare; oppure a quanto c'è da fare nel campo della medicina e assistenza agli anziani ed ai malati; oppure a quanto c'è da fare nel campo della ricerca scientifica, in particolare sull'energia, in campo agro-alimentare, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, delle tecnologie in genere. E' evidente che il Lavoro nel Mondo non può finire! Forse possono scarseggiare le risorse, ma in questo caso si tratta di usarle in modo più razionale ed efficiente, nonché procurarle "altrove", foss'anche su altri pianeti! Allora perché la società umana, e addirittura l’Europa, vive perennemente una situazione con immensi bisogni insoddisfatti mentre appare sempre più evidente che quei bisogni si potrebbero soddisfare soltanto se il Mondo assumesse una diversa prospettiva e diversi valori. Tra questi valori, per esempio ne abbiamo perduto molti negli ultimi tempi; forse perché mentre da un lato è rimasto immutato il valore del profitto - anzi si è rafforzato al punto da diventare "profitto ad ogni costo", esso si è anche svincolato da ogni regola etica e di buona convivenza. Abbiamo tutti smarrito non solo il valore, ma addirittura la nozione di “servizio”. In pratica si vuole qui sostenere che mentre il profitto è certamente valido anche come misura dell'efficienza con cui si svolgono determinati processi produttivi, non tutto è riconducibile ad esso, poiché esistono processi che non sono inquadrabili in un contesto economico e quindi misurabili dal profitto, ma attengono piuttosto alla sfera delle necessità. Ad esempio, se un asteroide di 1 km di diametro stesse puntando dritto sulla Terra ci sarebbe qualcuno che fermerebbe i progetti di disintegrazione/deviazione di questo bolide perché non sono generatori di profitto? Dunque, il vero punto è la necessità di ritrovare un “equilibrio”, un assetto globale del nostro mondo che tronchi alle radici le minacce nuove e vecchie e ponga al centro le necessità di ogni comunità umana, senza distinzione di razza, religione dislocazione territoriale, stadio di sviluppo. Invece i tempi in cui viviamo, imbrigliati dalle “trappole” di nostra stessa creazione, ci mettono di fronte a sfide e minacce cui sembriamo non trovare risposte adeguate.
La terribile minaccia alla pace rappresentata dall'ISIS alimenta – specie in Europa bersagliata da attacchi terroristici - un clima di incertezza e di paura che fa richiedere a più voci  interventi efficaci e proporzionati per mettere i terroristi in condizione di non nuocere; interventi che possono implicare un’oggettiva restrizione delle libertà personali; un mondo ed uno stile di vita sempre più insicuro e meno “libero”.
Da più parti s’invoca un ripensamento profondo delle cause che hanno reso possibile arrivare a tanto. Ricostruire su basi più giuste le relazioni internazionali non solo in Medio Oriente è la via maestra per invertire la tendenza intrapresa verso una guerra senza fine, una guerra fatta a pezzi, il cui puzzle, qualora ricomposto, porta gli evidenti segni di una terza guerra mondiale. E’ una guerra di accaparramento e di egemonia, ma non promette nulla di buono per nessuno.
Ma, torniamo al problema dei debiti sovrani e della crisi, che oggi, a inizio 2016, in molti sostengono sia in corso di superamento.
Dal 2008 in poi, si può notare la crescita enorme del debito aggregato UE da circa il 66% del PIL  a circa il 92% (nel 2014).
Secondo una regola aurea generale dell'economia il debito fa questa fine (crescita esponenziale)  quando il tasso percentuale di crescita reale è inferiore al tasso reale di interesse pagato sul debito. In sostanza, se cresce esponenzialmente il debito (per interessi o per sua vera espansione), o cresce in maniera altrettanto esponenziale il PIL oppure si è condannati “ciclicamente” alla crisi dei debiti sovrani, che abbiamo già vissuto.
Ergo, nell’ipotesi di una maggiore integrazione politica, tutta la UE è in condizioni di insostenibilità del debito? Il problema si risolve con l'austerità o con la crescita? Le risorse del pianeta sono in grado di sopportare i ritmi di crescita tenuti sinora? Il mondo globalizzato può tollerare che crescano ancora i paesi avanzati o deve spingere in su e sollevare chi è rimasto indietro? Chi nell'attuale classe politica Italiana, Europea e Mondiale è in grado di risolvere questo problema? I debiti vanno rimessi come recita la nostra Preghiera per eccellenza?
Sono questi gli interrogativi di fondo a cui si attende risposta per poter individuare una soluzione ai problemi che affliggono oggi l’Europa e quella parte di mondo che guarda ad essa con speranza.
Sembra quasi di essere condannati a risolvere un dilemma posto da un’impertinente sibilla ai viandanti che in questo mondo hanno l’avventura di imbattersi in lei: l’Europa.
La soluzione è la “decrescita felice” che alcuni propongono e che scontenta una grande fetta dell’umanità, la quale continua a puntare alla crescita di se stessa ben sapendo che è possibile solo se crescono anche gli altri (mettendo mano a tutte le risorse disponibili), oppure è giunto il momento di un cambio di paradigma che porti a un nuovo modello di sviluppo sostenibile globalmente?
Con un grossolano paragone si potrebbe dire che il PIL rappresenta per un Paese ciò che il fatturato rappresenta per un'impresa, quindi - dedotte le spese - il flusso di cassa . Ma, allora non dovremmo assumere a riferimento per ciascun Paese, sulla falsariga di quanto si fa anche per le imprese, un conto economico ed uno stato patrimoniale, che valorizzi ogni singolo pezzo del patrimonio nazionale e tutto quanto già realizzato in termini di infrastrutture, bellezze artistiche, paesaggistiche e naturali, sostenibilità e qualità della vita?
Per tutto questo non è forse necessario un nuovo modello di sviluppo sostenibile che pur senza togliere il suo valore al PIL , valorizzi anche altri parametri?
Il Magistero Petrino avvertiva già qualche anno fa : <<Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni della loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale>> (D.Petti – Dialogo sulla Politica con Benedetto XVI – 2013 – Lateran University Press).
Grexit, Brexit, Fixit, sono acronimi dei media che esprimono, insieme ai movimenti politici esplicitamente critici versi questa Europa e a quelli antieuropeisti (vedi Polonia, ma non solo), un fermento di cambiamento che appare improcrastinabile.
Ma, sorgono dubbi che gli stessi centri nevralgici dell’Europa non propendano per un cambiamento e l’Unione appare condannata ad una stasi lacerante, che sta compromettendo la sua stessa sopravvivenza e la  sopravvivenza pacifica del globo.
Si è spesso sostenuto che l’Europa è apportatrice di pace. E i Popoli Europei s’interrogano ormai anche su questo.
Basta guardare i conflitti più recenti in Europa e nel Mediterraneo: l’Ucraina, con la riaccensione degli storici antagonismi USA – Russia; la Libia, con l’intervento francese (con ammiccamenti inglesi) e la rottura del locale monopolio nostrano sull’energia; la Siria , dove si potrebbe usare il monito : “guai a coloro che non si piegano”; lo storico conflitto tra Turchia e Cipro;  lo storico conflitto dell’Area Balcanica (ex Jugoslavia); ora l’ ISIS non più solo nelle zone rivierasche del Nord-Africa, ma nel cuore stesso dell’Europa.
E allora: l’Europa è veramente apportatrice di pace?
Per tutte queste ragioni, ma particolarmente per quest’ultima, si ripropone qui di seguito una vecchia tesi sull’Europa. Si tratta di una tesi in "Storia della civiltà e dell'idea d'Europa" proposta  nell’anno accademico 1980/81, alla conclusione di due anni di corso della SCUOLA POST-UNIVERSITARIA DI PERFEZIONAMENTO IN STUDI EUROPEI presso l’ISTITUTO A. DE GASPERI di Roma (in via Poli, 29). Con essa, a quel tempo, si è inteso indagare sull'Europa e le idee ad essa sottostanti che, in termini problematici, apparivano analizzabili come il risultato di un processo dinamico evolutivo, storicamente imposto dal periodo post bellico e che appariva un elemento di accelerazione di un monopolarismo globale da realizzare; ma, allo stesso tempo s’incuneava come elemento dirompente tra bi/pluri-polarismi in atto o già realizzati.
La tesi viene riproposta sia perché di grande attualità, sia perché già individuava elementi dinamici evolutivi che lasciavano prefigurare, in un sistema multi-polare, i grossi blocchi (per es. cinese e islamico) che avrebbero potuto ri-bilanciare l’allora imperante bipolarismo incentrato su USA-URSS. Evoluzione, questa, che sarebbe avvenuta non senza rischi di conflittualità nelle periferie all’intorno dei diversi “centri polari”. In particolare, viene sottolineato, come l’Europa, con le proprie scelte e la propria riconfigurazione politica, avrebbe determinato comunque frizioni conflittuali. Ragion per cui l’idea di Europa non poteva che ridursi a strumento tipico ideale, per aggregare aree sempre più ampie, a servizio di un monopolarismo da realizzare.
Se questa tesi potrà essere convincente al punto da essere ritenuta “vera” non sarà più possibile ignorare ulteriormente le conseguenze cui conduce, specie nell’area mediterranea, che dovrà necessariamente proiettarsi verso l’Africa e il Medio Oriente in un ruolo “aggregante” in vista dell’obiettivo finale.
(Per eventuali approfondimenti del caso “Una vecchia tesi sull’Europa” è disponibile in rete al seguente link:http://www.bioacademyonline.eu/files/europa.pdf) Ma la strada intrapresa, invece, sembra un’altra  Continuiamo l’analisi qui di seguito.

3.       SOMETHING FOR US

Rinomate Agenzie di Stampa nazionali titolavano proprio agli inizi di maggio 2016 “Ttip: Greenpeace svela: “Usa tentano di colpire tutele salute Ue - Nell'ambito del libero scambio di merci, servizi e investimenti fra i due lati dell'Atlantico”. Ciò accade mentre in una certa parte del laicato cattolico italiano va sempre più diffondendosi un sommerso dibattito (che viene sommariamente riportato nel seguito nelle sue diverse interpretazioni) sulle azioni in atto tra USA e UE per il TTIP (Trattato di Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti), un’area di libero scambio tra l’UE e gli USA.
Come di consueto non si registrano posizioni uniformi. Tra variegate posizioni c’è chi esprime tutta la contrarietà possibile ad un simile trattato che definisce non solo nefasto per la democrazia, ma soprattutto uno degli ultimi tasselli di un piano che è iniziato molto tempo fa, allorquando , Brzezinski,  colui che viene considerato un ideatore e co-fondatore della Commissione trilaterale, scrisse quanto segue nel suo libro del 1971 “Tra due età: il ruolo degli Stati Uniti nell’era tecnotronica”  :
La Nazione-Stato come unità fondamentale della vita dell’uomo organizzata ha cessato di essere la principale forza creativa: Le banche internazionali e le corporazioni transnazionali sono ‘ora’ attori e pianificatori nei termini in cui un tempo erano attribuiti i concetti politici di stato-nazione”.

A)   Un’aperta interpretazione avversa al TTIP
S’interpreta così, che ciò che si vuole è un mondo governato dalle banche e dalle corporazioni transnazionali, una vera e propria dittatura del capitale; e si ritiene che questo è quello che veramente sta succedendo.
Posizioni di tal genere sono rafforzate da pareri di altro livello e statura come quelli del premio Nobel per l'economia Stiglitz quando afferma : "Io spero che i cittadini dell’Europa rispondano con un sonoro no”. In pratica questi che un tempo si chiamavano “accordi di libero scambio” oggi sono sempre più spesso considerati “partnership”. Ma non si tratta di partnership ritenute eque, perché gli Usa sembra dettino effettivamente i termini.
 "Tali accordi", prosegue Stiglitz, "vanno ben oltre il commercio, regolano gli investimenti e la proprietà intellettuale e impongono cambiamenti fondamentali nel quadro normativo, giudiziario e legale dei Paesi, senza il contributo o il supporto da parte delle istituzioni democratiche”. Quella che è ritenuta, forse, la parte più odiosa – e disonesta – di tali accordi riguarda la protezione degli investitori. Gli investitori che vogliono proteggersi possono acquistare un’assicurazione dalla Multilateral Investment Guarantee Agency, una società affiliata della Banca Mondiale, mentre gli Stati Uniti e gli altri governi forniscono una simile assicurazione. Tuttavia, gli Usa richiedono misure simili nel TPP, anche se molti dei loro “partner” hanno protezioni sulla proprietà e sistemi giudiziari che sono buoni quanto le loro. Lo scopo reale di tali misure è inteso come ad ostacolare la salute, l’ambiente, la sicurezza, e, sì, anche le norme finanziarie vengono intese a proteggere l’economia e i cittadini americani. Le società possono citare in giudizio i governi al fine di ottenere un risarcimento per un qualunque calo dei profitti stimati in futuro, derivante da cambiamenti normativi.”
Non sembra solo una possibilità teorica. Si racconta, infatti, come Philip Morris abbia intentato causa all’Uruguay e all’Australia per le loro politiche antifumo. A dire il vero, entrambi i Paesi sono andati poco più lontani degli Stati Uniti, imponendo di includere immagini grafiche che mostrano le conseguenze del fumo. Il processo di etichettatura è all’opera. E sta dissuadendo dal fumare. Così ora Philip Morris sembra chiedere di essere risarcito per il calo degli utili.
 In futuro, prosegue il premio Nobel Stiglitz, se scopriamo che qualche altro prodotto causa problemi di salute (pensiamo all’amianto), piuttosto che far fronte a denunce per i costi imposti, il produttore potrebbe citare in giudizio i governi per averlo trattenuto dall’uccidere più persone. La stessa cosa può accadere se i nostri governi impongono norme più ferree per proteggerci dall’impatto delle emissioni di gas serra.
 Fondamentale per il sistema di governo americano è una magistratura pubblica imparziale, con norme legali costruite nei decenni, basate su principi di trasparenza, sul precedente e sulla possibilità di presentare appello contro le decisioni sfavorevoli. Tutto ciò viene messo da parte, dal momento che i nuovi accordi richiedono arbitrati privati, non trasparenti e molto costosi.
Inoltre, tale accordo è spesso pieno di conflitti di interesse; ad esempio, i mediatori possono essere un “giudice” in un caso e un difensore in un caso correlato. I procedimenti sono così costosi che l’Uruguay si è dovuto rivolgere a Michael Bloomberg e ad altri americani ricchi, attivi nel settore della salute, per difendersi da Philip Morris. E, anche se le società possono intentare causa, altri non possono. Se c’è una violazione di altre responsabilità – sul lavoro e sulle norme ambientali, ad esempio – cittadini, sindacati e organizzazioni della società civile non possono presentare ricorso.
“Se mai ci fosse un meccanismo di risoluzione delle controversie unilaterale che viola i principi base, è proprio questo. Ecco perché mi sono unito anch’io ai più importanti esperti legali statunitensi, provenienti da Harvard, Yale e Berkeley, nello scrivere una lettera al Presidente Barack Obama che spiega quanto sono dannosi questi accordi per il sistema giudiziario. Se ci fosse bisogno di una migliore protezione della proprietà, e se tale meccanismo di risoluzione delle controversie, costoso e privato, fosse superiore alla magistratura pubblica, dovremmo cambiare la legge non solo per le società estere benestanti, ma anche per i nostri stessi cittadini e per le piccole imprese. Ma non c’è stata alcuna proposta a riguardo. La domanda è se dobbiamo consentire alle ricche aziende di utilizzare misure nascoste nei cosiddetti accordi commerciali per prescrivere come vivremo nel ventunesimo secolo. Io spero che i cittadini degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’Asia Pacifico rispondano con un sonoro no”. conclude Stiglitz.
Questo tipo di interpretazione non può che condurre a un esplicito NO AL TTIP !

B)   Interpretazioni diverse, ma altrettanto preoccupate
Queste interpretazioni diverse, ma altrettanto preoccupate, non entrano tanto nel merito delle scelte di politica economica su cui ci si può legittimamente dividere (per es. dibattito tra keynesiani e monetaristi, pregi e limiti di economie chiuse ed economie aperte, ecc.) quanto si fondano sul quadro istituzionale entro il quale tali cambiamenti avvengono e sul quale pochi tendono a porre attenzione.
Posto che in pochi pensano al TTIP, la maggior parte di coloro che se ne occupano sembra che ponga più attenzione su costi e benefici immediati (chi ci perde e chi ci guadagna) che sul profondo impatto che esso potrà avere sul futuro della democrazia.
Così come “La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva( S. Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle scienze sociali, 27 aprile 2001 )" ma dipende dall'uso che se ne fa, così il TTIP, appare presentare rischi e opportunità.
Così come è strutturato in partenza, tuttavia, i rischi appaiono superiori alle opportunità in quanto, come è successo per il fiscal compact, ossia il Il trattato europeo sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria”, firmato in occasione del Consiglio europeo dell’1-2 marzo 2012  (cfr. http://leg16.camera.it/465?area=8&tema=744&Trattato+Fiscal+Compact  ), anche con il TTIP, stando alle versioni disponibili, vengono spossessati di ogni decisione (salvo la ratifica iniziale) i Parlamenti, cioè gli organismi che (nel bene o nel male) dovrebbero invece incarnare la sovranità popolare.
In questa interpretazione si ammette che sicuramente esiste un problema di costi, di efficienza e di efficacia da affrontare nei parlamenti, ma si ritiene che i mass media negli ultimi anni si siano prestati e continuino a prestarsi ad una campagna di demolizione dell'immagine di tali istituzioni proprio per aprire la strada alla presunta "efficienza" di organismi tecnocratici (che saranno efficienti ma molto meno trasparenti e partecipati dei parlamenti).
Anche agli osservatori più critici (e più illustri) sul TTIP sembra sfuggire il problema della creazione di un meccanismo che si potrebbe adottare in futuro per gli atti di portata normativa che vincoleranno gli Stati  senza che intervenga alcuna decisione parlamentare. Quindi, senza volersi pronunciare sul fatto se il TTIP sia foriero o meno  di opportunità analoghe a quelle che si aprirono in Europa col mercato unico - sancito col Trattato CEE del 1957 ma in pratica rilanciato col "Libro bianco sul completamento del mercato interno" di Delors del 1985 - qui si vuole sottolinearne la differenza con il processo di costruzione del mercato interno della CEE, che richiese centinaia di atti legislativi europei (regolamenti ma, soprattutto, direttive) co-decisi dal Parlamento europeo mentre gli atti normativi applicativi del TTIP (modifiche degli allegati, ecc.) saranno decisi da organismi tecnici che non risponderanno ad alcun parlamento nazionale, europeo o transatlantico.

C )   Necessità di entrare nel merito
In merito al TTIP si afferma che sia incontrovertibile che la creazione di un’area di libero scambio si accompagni con una crescita dei commerci e una conseguente crescita del PIL. Ma questo è sempre vero? Ad alcuni pare che le aree di libero scambio non siano di per se stesse portatrici di crescita, se non a certe condizioni, (per es. il PIL italiano, infatti, e non solo, è fortemente diminuito in UE!).
Per quanto possa convenire all'Italia nelle attuali contingenze, l'implicito obiettivo del TTIP sembra essere la parità dell'Euro con il Dollaro, cosa  non accettabile da coloro che vogliono un Euro "forte". Quindi, in aree di libero scambio e con valuta comune non è detto che "una crescita dei commerci" abbia come conseguenza una crescita del PIL; almeno per le seguenti ragioni :
1) Nelle economie aperte il PIL aumenta per effetto commercio solo se è il saldo positivo (export meno import)  con l'estero ad aumentare (vedi Germania in UE) e sempre di più si comprende che è necessario porre un limite a tale saldo in aree a valuta comune perché può divenire strumento di politiche aggressive delle economie più forti verso quelle più deboli. Ma c'è un vincolo in tal senso nel TTIP? Oppure c'è garanzia di libera fluttuazione di cambi Euro/Dollaro? E in caso affermativo chi gestirebbe questa politica, la BCE che non è una vera e propria banca centrale di un Superstato Europeo che ancora non esiste?
2) Occorre ricordare che la teoria monetaria moderna ci dice che un deficit di bilancio significa ricchezza che lo stato immette verso il settore privato, mentre un surplus di bilancio significa ricchezza che lo stato ritira dal settore privato. Quindi il pareggio di bilancio introdotto in costituzione significa che il nostro settore privato non deve più crescere in ricchezza. Se come accade in UE si pone un limite del 3% all'inflazione e un limite del 3% al deficit di bilancio, ciò equivale a dire che si sta pianificando una crescita zero in termini reali. In queste condizioni la competitività relativa dei paesi a libero scambio e valuta comune (o tendenti alla parità) aumenta solo se ci si mantiene molto al disotto dei limiti di inflazione imposti (nel nostro caso << + 3%)  mentre per i limiti di deficit sul  bilancio ci si pone sempre all'estremo superiore del limite (anche qui = + 3%).
E' proprio per non aver saputo fare questo "gioco"   nel corso di 15 anni, cosa che invece ha saputo fare molto bene la Germania, che l’economia italiana (insieme alle circostanze di un Euro forte) ha perso competitività (per effetto di inflazione differenziale) ed è regredita in occasione di una crisi internazionale che ha funzionato da innesco, ma che rischia di divenire strutturale e finalizzata alla decrescita, nel tentativo estremo di riportare - nel migliore dei casi - equilibrio tra i paesi della Terra e nell'utilizzo delle risorse ambientali di cui il consumismo ha abusato. Tutto ciò è in qualche modo impostato, evidenziato e governato nel TTIP? E poi, quali strumenti avremmo nella presente situazione"? La realtà che appare a molti è : "Guai ai vinti!" (vedi http://www.interris.it/2016/02/12/85647/intervento/85647.html ) .
3) Infine se fosse vero che l'implicito obiettivo del TTIP è la parità dell'Euro con il Dollaro, prima di attivare nuove aree di libero scambio, non dovremmo aver ben studiato il Ciclo di Frenkel, che taluni invocano come elemento di disfunzione della stessa UE? Ma questi sono compiti eminentemente politici e noi non siamo che marginali rispetto ad essa: la politica che conta!
Insomma, c'è da chiedersi se il TTIP  verso l'UE non sia un modello aggregativo finalizzato al piano di un "governo mondiale unico", che se da un lato è strumento per la costruzione del "Regno", dall'altro può essere garanzia di Giustizia e di Pace solo dipendentemente dagli orientamenti di chi ne sarà il "il Re"; e ad oggi non è automatico che il "Re" sarà un "re buono ed illuminato".

D) In conclusione:
Sono proprio le previsioni del vecchio Brzezinski che osserva un’EU inconcludente e ancora ferma su vecchi schemi e teorizza ormai un nuovo assetto “bipolare-plus” (G-2 plus : USA-CINA più altre economie marginali, EU e Russia comprese tra esse) che ci avverte :
“Gli Stati Uniti non sono più una potenza assoluta anche se mantengono il dominio del cielo, del mare e della terra. Per ora. Tuttavia, la supremazia americana si è indebolita, in virtù dell’emergere di nuovi player geopolitici che, almeno a livello regionale, iniziano a tenerle testa.” (Leggi tutto: http://it.sputniknews.com/mondo/20160502/2590481/america-usa-declino-brzezinski.html#ixzz47WH96Ylz ).
I social media sono divenuti strumento per costituire fascicoli ben precisi sull’orientamento di organismi sociali e individuali, e i maggior utenti a tale riguardo sembrano essere USA e INDIA.
Forti di ciò, sull’altro lato dell’Atlantico ci si interroga sulla percezione degli USA nel Mondo e aldilà della Gran Bretagna che viene considerato il miglior alleato degli Stati Uniti, la Germania e l’Italia, con le proprie forti relazioni con la Russia sono viste come problematiche, perché portano acqua al mulino di chi non può divenire, secondo Brzezinski, centro polare in Eurasia. In ogni caso, poiché in Italia sembra che il 66% sia sempre favorevole agli USA e piuttosto che subire di nuovo la penalizzazione di un euro sopravvalutato c’è chi fa affidamento che il Paese opterebbe più volentieri per divenire parte di una 51esima stelletta – pur se marginale e dislocata - della bandiera americana. Tutto ciò accade mentre in Italia un esercito di 2,5 milioni di giovani (prevalentemente laureati e diplomati) sono disoccupati ed in parallelo magnati cinesi – facendo dumping ambientale e sui diritti umani - portano annualmente migliaia di propri dipendenti in vacanza in Europa pagandone i costi e consolidando le basi del consenso interno della politica espansiva cinese.
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare! Ma, …

4.       IL PROBLEMA DEMOGRAFICO E LA RESPONSABILITA’ GLOBALE DI AFFRONTARLO

Papa Francesco in un certo momento del suo pontificato aveva iniziato ad affrontate più in concreto il tema della paternità consapevole; ma al laicato in ascolto è parso solo un breve e sfuggente cenno. Quindi la domanda si pone di necessità : “SIAMO VERAMENTE CONSAPEVOLI DELLA DRAMMATICITÀ DEL PROBLEMA DEMOGRAFICO MONDIALE?”.
Recentissimi studi dimostrano che l'attesa stabilizzazione della popolazione mondiale è molto controversa e anzi entro questo secolo con probabilità intorno all'80% la popolazione mondiale raggiungerà un totale compreso tra 9,5 e 11 miliardi di persone.
Si pone quindi un problema di sostenibilità per le risorse idriche, energetiche, ambientali e finanziarie che può condurre a compromettere la vita sul pianeta e portare alla povertà generalizzata, se non vengono intrapresi adeguati provvedimenti immediati, visto che 3,5 miliardi vivono già con 2 dollari al giorno, non hanno accesso all'acqua e all'elettricità se non in modo molto limitato o niente affatto.
Le migrazioni verso paesi più sviluppati non risolvono per nulla il problema poiché ai tassi di crescita attuali le migrazioni possono mitigare, quindi assorbire, al più 15 milioni di nuovi poveri, mentre ogni anno si aggiungono alla popolazione mondiale più povera dai 50 ai 60 milioni di nuovi poveri.
In modo visivo e immediatamente comprensibile nulla può spiegare meglio del seguente video. l'attuale drammatica situazione: https://www.youtube.com/watch?v=LPjzfGChGlE  .

5.       CHIESA E GLOBALIZZAZIONE - La Profezia di Francesco :"Noi siamo profeti di un futuro che  non ci appartiene"

Un saggio di Gennaro Acquaviva su “Mondoperaio” del 1/2016 ci parla de "La profezia di Francesco", sostenendo che "Era la stessa tradizione gesuita incarnata nel nuovo Papa ad indicare implicitamente a tutti che egli era di fronte al compito di riguardare il primato petrino incarnato nel Vescovo di Roma con gli occhi dell’universalismo e della modernità".
Il saggio ci ricorda alcune espressioni chiave del Papa:
“Dobbiamo tornare al Vangelo, perché la Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”;“Niente di ciò che facciamo è completo. Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa. Nessuna meta né obiettivo raggiunge la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno nasceranno. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene”.
Il saggio è la premessa per analizzare le "conseguenze che la incessante predicazione di questo Papa, e la sua azione pastorale e missionaria, hanno innescato nella condizione spirituale dell’umanità. Come tutti abbiamo potuto constatare si è trattato di un’azione straordinariamente diffusa, collocata in una dimensione aperta a tutti gli uomini, e che ha visto prevalere in Francesco la figura di pastore e di guida spirituale dell’umanità intera assai più che quella di Primate della Chiesa cattolica romana.".
L'analisi che ne consegue è sviluppata in alcuni saggi e riportata nel dossier >>> pietro e francesco di "Mondoperaio" 5/2016. (vedi link  http://roccomorelli.blogspot.it/2016/05/chiesa-e-globalizzazione-la-profezia-di.html ).
L’analisi storica individua chiaramente un’antica ed odierna tendenza universalista del mondo cattolico guidato da Francesco che è materia di attenta riflessione, nel mondo occidentale in particolare, al pari della citazione precedentemente riportata di  Benedetto XVI: <<Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni della loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale>>.
Tutto ciò si prospetta nell’ambito dell’irrisolto apparente antagonismo tra universalismo  e particolarismo nazionale. Il primo, intrinseco alla nozione stessa di cattolicesimo e caratteristico già di una parte del giudaismo pre-cristiano, e il secondo, retaggio più recente della formazione degli stati nazionali che sembrano rappresentare un passo obbligato verso l’ecumenismo cattolico e, più in concreto, verso una unificazione dell’ecumene sempre più prossima, aldilà dei processi pacifici o conflittuali sottostanti.

CONCLUSIONI

Un cambio di paradigma nelle relazioni umane e internazionali si frappone lungo le vie dell’uomo di oggi. Il mutamento è dettato dalla consapevolezza che ogni frazione è parte di un tutto dove le singole libertà appaiono  sempre più limitate dalle altrui libertà in un sistema in via di integrazione presumibilmente irreversibile. L’esigenza di richiudersi nuovamente entro i propri autonomi confini è dettata dalle difficoltà evidenti che l’integrazione sta incontrando tra egoismi e interessi  di parte.

Non possediamo singolarmente verità intangibili ed immutabili;  solo il dialogo con e verso l’altro sembra poter apportare comprensione; solo la solidarietà sembra capace di riavviare la crescita; solo la volontà sembra poter mantenere la pace necessaria ad ogni ulteriore sviluppo , nella consapevolezza che un comune destino lega indissolubilmente l’intero genere umano.

In alternativa non vi è che il conflitto, che necessariamente sfocia nel ricorso alla forza e al confronto delle potenze in gioco, con il rischio di un annientamento senza vincitori né vinti e l’impossibilità di migrare altrove perché siamo tutti legati al destino di questa unica e sola Madre Terra. 

venerdì 13 maggio 2016

CHIESA E GLOBALIZZAZIONE - La Profezia di Francesco :"Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene"

Un saggio di Gennaro Acquaviva su “Mondoperaio” del 1/2016 ci parla de "La profezia di Francesco", sostenendo che "Era la stessa tradizione gesuita incarnata nel nuovo Papa ad indicare implicitamente a tutti che egli era di fronte al compito di riguardare il primato pietrino incarnato nel Vescovo di Roma con gli occhi dell’universalismo e della modernità".
Il saggio ci ricorda alcune espressioni chiave del Papa:
Dobbiamo tornare al Vangelo, perché la Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”;“Niente di ciò che facciamo è completo. Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa. Nessuna meta né obiettivo raggiunge la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno nasceranno. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene”.

Il saggio è la premessa per analizzare le "conseguenze che la incessante predicazione di questo Papa, e la sua azione pastorale e missionaria, hanno innescato nella condizione spirituale dell’umanità. Come tutti abbiamo potuto constatare si è trattato di un’azione straordinariamente diffusa, collocata in una dimensione aperta a tutti gli uomini, e che ha visto prevalere in Francesco la figura di pastore e di guida spirituale dell’umanità intera assai più che quella di Primate della Chiesa cattolica romana.".


L'analisi che ne consegue è sviluppata in alcuni saggi e riportata nel seguito estratto dal dossier >>> pietro e francesco di "Mondoperaio" 5/2016.

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>>>> pietro e francesco 

Chiesa e globalizzazione 

>>>>  di Paolo Prodi 


Nel numero di gennaio della rivista ("Mondoperaio") Gennaro Acquaviva, proponendo una valutazione dei primi tre anni del pontificato di Francesco, ha sottolineato alcune problematiche che toccano il tema della riforma del governo papale, inevitabilmente connesse con le caratteristiche innovative proposte dal Papa nella sua predicazione ed azione pastorale. Per approfondire l’argomento riteniamo utile proporre alcuni contributi specialistici. Quello di Paolo Prodi, insigne storico del cristianesimo, sul tema della riforma del Primato petrino; quello di Marco Ventura, professore di diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università di Siena; e quello di Michele Riondino, che illustra i primi atti riformatori del nuovo pontificato che toccano gli enti economico-finanziari della Santa Sede. Ad esse segue una prima riflessione di Gennaro Acquaviva sulle conseguenze italiane della riforma.

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Il punto di partenza e il filo rosso che collega l’impegno e il destino terreno dei vari pontefici lungo i secoli dell’età moderna è stata la esigenza fondamentale di esercitare il ministero petrino (il Petrusamt, cioè il mandato ricevuto da Pietro di custodire mantenere e promuovere l’unità e la comunione di tutte le Chiese nella custodia della verità rivelata) in un mondo che si viene sempre più configurando come quello dei principati e delle monarchie, dei nuovi Stati moderni. Il pericolo massimo che il papato vede di fronte a sé – dopo lo scisma, la fine dell’esperienza conciliarista e della respublica christiana medievale – è quello di un frazionamento delle istituzioni ecclesiastiche all’interno dei nuovi poteri emergenti nelle varie regioni d’Europa: la formazione di Chiese nazionali e territoriali sottoposte ai sovrani. L’esperienza del papato avignonese (di un pontefice ridotto a essere il cappellano dei sovrani) rimane l’ossessione e l’incubo dei papi. É una tensione secolare che caratterizza tutto questo periodo in modo realmente tragico. Non credo si possa comprendere l’ importanza di questa storia senza questa trama di fondo. Ciò che è interessante è cercare di comprendere i singoli momenti, i singoli atti di questo dramma nei successivi contesti temporali. In un primo tempo al centro della politica papale è lo sforzo di costruire uno Stato proprio, di fare delle disperse e sconnesse “terre della Chiesa” un principato rinascimentale coerente sulla base di strutture famigliari (il grande nepotismo), in rapporto con il sistema italiano delle signorie e dei principati: incorrendo quindi nella tentazione (pericolo continuo) di trasformare il papato stesso in una dinastia. Pensiamo non soltanto ai pontefici di casa Medici (Leone X e Clemente VII), ma a tutta la rete di parentele che lega papi, cardinali e prìncipi dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento [1-Per un’ultima sintesi e bibliografia aggiornata v. G. CHITTOLINI, Papato, corte di Roma e stati italiani dal tramonto del movimento conciliarista agli inizi del Cinquecento, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa e G. Cracco, Rubbettino, 2001, pp.191-217.] Uno Stato quindi che in quanto tale possa costituire la base di un nuovo potere universale indipendente, in concorrenza con le potenze emergenti. 
Una volta sconfitto questo modello (il sacco di Roma del 1527 può essere visto come il segno del tramonto), si presenta la sfida della Riforma e dello scisma anglicano: nascono contro l’universalismo di Roma nuovi modelli di Chiese territoriali tra loro molto diversi, ma aventi la comune caratteristica di coincidere con il potere politico degli Stati moderni emergenti. La tesi che ho avanzato molti anni or sono - e che mi sembra essere ancora valida - è che il papato abbia fornito con questo percorso un “prototipo” per le moderne monarchie assolute, con un esempio dell’unione tra potere spirituale e temporale e con la trasformazione della politica stessa da mero atto d’imperio a un nuovo potere che tende a formare e disciplinare l’uomo dalla nascita alla morte. [2- P. PRODI, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982 (a quest’opera rinvio naturalmente per la bibliografia precedente).]
Il prezzo pagato dal papato in questa fase storica non è stato quindi soltanto quello, ben noto e studiato dalla storiografia tradizionale, degli abusi e della corruzione. ma qualcosa di molto più profondo: cioè la fuoriuscita da ogni ipotesi dualistica, con la fondazione di un Tempelstaat che nella sua espressione più coerente e centrale (quella del pontificato di Alessandro VI, il famigerato papa Borgia) ha assunto forme più vicine ad una rinascita del potere e della cultura dell’antico Egitto dei faraoni che non alla proposta teocratica di Bonifacio VIII o alle teorie conciliariste della christianitas nell’autunno del medioevo. [3-Nell’immensa bibliografia il rinvio è soprattutto ai classici studi di W. Ullmann e di F. Oakley. Vedi ora E. CONTE, La bolla “Unam sanctam” e i fondamenti del potere papale fra diritto e teologia, in Mélanges de l’École française de Rome- MoyenÂge, 113 (2001), PP. 663-684. Sul papa Borgia: P. PRODI, Alessandro VI e la sovranità pontificia (in corso di stampa negli Atti del convegno “Alessandro VI e lo Stato della Chiesa”, Perugia, marzo 2000)].
L’azione del papato per la riforma della Chiesa parte quindi in ritardo, e il concilio di Trento può essere convocato e faticosamente concluso con successo nella misura in cui è chiaro l’abbandono da parte dei papi di ogni tentativo di egemonia e di antagonismo sul piano temporale. Il compito principale della riforma cattolica (o della controriforma: non è più il caso di disputare in proposito se si accetta di guardare al fenomeno nelle sue molteplici componenti) mi sembra quindi essere stato, al di là della lotta contro gli abusi e la corruzione interna, quello di garantire alla Chiesa una nuova autorità universale non basata su una concorrenza con gli Stati sul piano politico. Una “confessione” intesa come professione di fede giurata, non soltanto una Chiesa nel senso tradizionale del medioevo: una confessione che non si rinchiude in un ambito territoriale ma che trova nel papato il suo perno per una nuova giurisdizione sulle anime. Per questo il faticoso successo del concilio di Trento, con i suoi decreti dogmatici e i suoi decreti di riforma; per questo la promulgazione della professio fidei tridentina, con il monopolio romano nell’attuazione e nella gestione della disciplina del popolo cattolico [4-Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996 (introduzione)].
 Il punto di partenza ideologico può essere visto nel famoso Libellus ad Leonem X dei camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini, del 1512. Nella nuova età che si apre e nella quale per le nuove scoperte l’Italia appare angustissima e l’Europa stessa non satis lata, al papa è affidato il governo di tutta l’umanità nella diversità dei regimi, delle razze, delle consuetudini e delle stesse religioni: “Totum humanum genus, omnes scilicet gentes, nationes, quae sub coelo sunt, tuae subditas esse potestati”. Ma non in concorrenza con i principati terreni: “Veram autem ecclesiam Dei, non terrenae habitationis civitates, aut manufacta aedificia, sed hominum Congregationem esse te latere non debet”. Il triregno rappresenta iconograficamente, come affermano esplicitamente i due autori, non più il triplice potere elaborato dal papato medievale, ma una realtà nuova, espressione visiva di un potere spirituale che si estende alle terre nuovamente scoperte: l’Italia, l’Europa, il mondo[5-P. GIUSTINIANI - V. QUIRINI, Libellus ad Leonem X, in Annales camaldulenses,IX, Venetiis 1773, coll.614-621.]

La storia moderna del papato è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi 


Nella nuova età che si apre lo sforzo dei pontefici non è quindi più concentrato nell’accrescimento della sovranità (non avremo più pontefici-guerrieri come Giulio II): lo Stato non è più visto come fine a se stesso, ma viene soltanto consolidato come strumento per difendere l’indipendenza stessa del papato nell’Europa ormai divisa dalle guerre di religione; l’Italia stessa, ormai non più al centro della politica europea, diviene una specie di zona grigia allargata sottoposta all’influenza papale senza alcun bisogno di conquiste territoriali. Lo sforzo maggiore dei papi si viene concentrando nella costruzione di un nuovo tipo di sovranità spirituale non territoriale, parallela e distinta rispetto a quella degli altri Stati, secondo le indicazioni teorizzate dal cardinale Roberto Bellarmino nella dottrina del potere indiretto: la Chiesa come societas perfecta alla pari dello Stato. Per questo la storia moderna del papato, dall’attuazione centralizzata delle riforme tridentine alla costituzione Pastor aeternus del Vaticano I e oltre, sino alla metà del secolo XX, è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi. Una sovranità che si attua in modo diretto nei confronti dei fedeli cattolici: con lo spostamento del centro dell’interesse dal campo strettamente dogmatico a quello etico-morale, con la formazione di una organica legislazione e giurisdizione sulle coscienze, della casistica come scienza del comportamento. Non per nulla nei secoli XVII e XVIII il problema cardine negli interventi papali in campo religioso diventa quello della grazia, della giustificazione, e dei fondamenti della morale (pensiamo alle prese di posizione nei riguardi del giansenismo, del lassismo e del quietismo come prima preoccupazione dei pontefici di quest’epoca). Ciò si riflette sul terreno più propriamente politico nell’affermazione di un potere “indiretto” basato su un “corpo” ecclesiastico sovrastatale e sovranazionale, su di una nuova disciplina del clero e delle anime dei fedeli in concorrenza con la legislazione e i poteri statali, nella strenua difesa delle immunità e dei privilegi ecclesiastici di fronte alla politica e al diritto degli Stati assoluti. Il punto centrale di questo cammino, di questo ciclo storico secolare, può essere visto nelle grandi paci di Westfalia, che si concludono nel 1648 con la vittoria del principio cuius regio eius et religio che vincola sostanzialmente anche i paesi rimasti nell’obbedienza romana al principio della territorializzazione delle Chiese, e che vede quindi una sconfitta politica del papato nella sua aspirazione universalistica. Anche i rapporti con gli episcopati sono dominati da questo problema: non penso si possa comprendere la discussione sul rapporto tra centralismo papale e potere episcopale nella Chiesa dell’età moderna prescindendo da questo dramma concreto, che si risolve in una serie infinita di lotte giurisdizionali, in compromessi sanciti o meno nei concordati. Non credo vi possa essere dubbio che ciò ha portato ad un’accentuazione prima non conosciuta della centralizzazione rispetto ad una prassi di comunione e di coordinazione nell’esercizio del mandato apostolico. Per fare soltanto un esempio, penso che nulla testimoni meglio questo processo del confronto tra il concordato del 1516 tra Leone X e Francesco I di Francia (che lascia praticamente al re la mano libera nelle nomine episcopali) e il concordato o convenzione tra il governo francese e Pio VII del 1801, che concede in pratica la nomina dei vescovi al primo Console e obbliga i neo-nominati ad un giuramento le cui clausole sono ancora sostanzialmente quelle in vigore nei secoli dell’antico regime: “Io giuro e prometto a Dio, sui santi Vangeli, di prestare obbedienza e fedeltà al governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica francese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza, di non assistere ad alcun conciliabolo, di non mantenere alcuna lega, sia nell’interno che all’esterno, che sia contraria alla tranquillità pubblica; e se nella mia diocesi ed altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pregiudizio dello Stato , io lo farò sapere al governo”. Non posso qui parlare della storia successiva ma ricordo soltanto che il giuramento di fedeltà dei vescovi è stato abolito in Italia soltanto con la convenzione del 1984.

Le beatificazioni congiunte di Pio IX e di Giovanni XXIII rappresentano certamente
 il riepilogo di un intero periodo storico della storia della Chiesa e del papato


Questi accenni soltanto per dire che la funzione storica del papato nei secoli dell’età moderna è stata quella, nonostante tutti i cedimenti, di difendere l’universalità della Chiesa come istituzione in concorrenza con lo Stato, in un mondo sempre più dominato dalla presenza dello Stato stesso come monopolizzatore di ogni aspetto della vita sociale . Quale sia stato il prezzo che ha dovuto pagare sino ai nostri giorni sul piano delle controversie giurisdizionali e nel compromesso tronoaltare ha costituito il centro dell’interesse della storiografia degli ultimi secoli, e non possiamo qui certo rievocarne la complessità. Certamente la posizione del papato è apparsa sempre più una posizione di retroguardia, una difesa di privilegi e immunità, la resistenza al processo di modernizzazione in un mondo in cui gli Stati, distaccandosi dalla sovranità divina, approdavano alla concezione moderna e razionale della politica, e in seguito anche alle libertà costituzionali, alla democrazia ed alla nuova religione della Patria, territori nei quali il papato non poteva per sua natura interferire. Ma un prezzo altissimo, più nascosto e meno studiato, è stato pagato all’interno della Chiesa stessa per il processo di imitazione dello Stato da parte della Chiesa al suo interno: la persona del prìncipe è entrata in simbiosi con quella del capo della Chiesa, dando un’impronta sempre più segnata da un parallelismo tra le uniche due societates perfectae, sovrane, esistenti sulla terra (particolarmente nell’esaltazione della centralizzazione e della giuridicizzazione), ben oltre il termine cronologico della fine dello Stato pontificio. Quando i governi degli Stati liberali cominciano a rinunciare al controllo laicale delle nomine episcopali – la quarta piaga della Chiesa nella denuncia di Antonio Rosmini – non vi è una ripresa, nel senso da lui auspicato, della tradizione antica: la partecipazione del clero e del popolo viene esclusa, e le nomine rimangono nelle mani del pontefice, confermando la centralizzazione romana.[6 - P. PRODI, Potere politico e nomina dei vescovi: la “quarta piaga” della Chiesa, in Il “gran disegno” di Rosmini. Origine, fortuna e profezia delle “Cinque piaghe della Santa Chiesa”, a cura di M. Marcocchi e F. De Giorgi, Milano 1999, pp. 109-123.
Sul piano del diritto basta pensare alla promulgazione del Codex iuris canonici del 1917, che si inserisce nel processo di codificazione che aveva caratterizzato gli Stati nel secolo precedente. Da questo punto di vista le beatificazioni congiunte di Pio IX e di Giovanni XXIII rappresentano certamente il riepilogo di un intero periodo storico della storia della Chiesa e del papato: l’ultimo percorso di una parabola iniziata molti secoli prima. Un percorso che parte dalla tragedia dell’ ultimo papa-re, che proprio nel momento della rinuncia forzata allo Stato temporale e ai sogni neoguelfi esalta al massimo, nel concilio Vaticano I, la sua “sovranità” sulla Chiesa con la proclamazione del primato di giurisdizione e dell’infallibilità; e che si conclude con la rinuncia da parte di Paolo VI agli ultimi simboli della sovranità con il gesto simbolico della deposizione della tiara sull’altare. Nonostante l’affermarsi della nuova ecclesiologia di comunione nel concilio Vaticano II, non si è modificato il centralismo e la concentrazione dell’esercizio del primato nell’unica figura giuridica del pontefice romano come “vescovo della Chiesa universale” che ha caratterizzato nei secoli dell’età moderna l’esercizio del primato sia all’interno della Chiesa occidentale sia nel rapporto con le Chiese d’oriente. [7-H. POTTMEYER, Le rôle de la papauté au troisième millénaire. Une relecture di Vatican I et de Vatican II, Paris 2001. ]. 
Più in generale penso possano essere confermate anche a proposito del papato le profonde intuizioni dell’ultimo Dossetti su un concilio Vaticano II come ancora inglobato in un regime di “cristianità” che soltanto ora, dopo alcuni decenni, possiamo vedere come storicamente concluso.[8 - G. DOSSETTI, Conversazioni, Milano 1994, Cooperativa culturale Il Dialogo (,pp.21-22 (da una conversazione tenuta al clero della diocesi di Pordenone il 17 marzo 1994))]. Occorreva quindi aspettare la fine dello stesso potere temporale, il tramonto tragico della “persona” del pontefice come princeps saecularis, la maturazione delle idee liberali, perché il discorso potesse incamminarsi faticosamente, negli ultimi due secoli, sulla strada che ha portato alla riconciliazione con il mondo moderno, alla libertà di coscienza e ad un nuovo statuto del cristiano. Ma ora anche quest’epoca, questo ciclo storico della modernità sembra essersi concluso: la stessa espressione “libera Chiesa in libero Stato”, nodo così centrale per la vita religiosa e politica dei nostri padri, sembra appartenere a mondi lontani. La sovranità degli Stati è in gran parte evaporata con la globalizzazione: per lo sviluppo delle nuove reti di comunicazione, delle nuove tecnologie, e soprattutto delle grandi potenze finanziarie – i fondi sovrani – che si identificano e si sovrappongono alle tradizionali grandi potenze territoriali, e sembrano non avere più alcun territorio (anche se le loro decisioni si ripercuotono in pochi istanti sul mondo intero). Così anche le antiche religioni monoteiste – soprattutto ebraismo, cristianesimo, islamismo – ad ogni generazione si distaccano sempre più celermente dalle antiche appartenenza etniche, politiche e culturali. Nessuna Chiesa può essere ai nostri giorni “libera in libero Stato”, come dimostrano tutte le discussioni senza sbocco (che ora non possiamo certo qui aprire) sul tema della laicità. L’epoca che ora si apre impone una riconsiderazione del problema dell’esercizio del primato petrino in un contesto storico molto diverso e per certi versi opposto ai parametri che lo hanno caratterizzato durante i secoli dell’età moderna. L’universalità non deve essere ora più difesa nei confronti degli Stati, che hanno perso gran parte della loro sovranità (anche se naturalmente molti dei problemi del passato rimangono), bensì incarnata storicamente di nuovo nel panorama ancora incerto dell’età della globalizzazione.
Le figure degli ultimi pontefici hanno bene illustrato il passaggio storico che abbiamo di fronte, anche se le risposte sono state sempre parziali negli ultimi decenni: Giovanni Paolo II ha illustrato con la sua attività apostolica e la sua personalità di grande comunicatore a livello planetario la tensione dell’attuale momento ecclesiale sui problemi ancora irrisolti che fanno davvero ritenere sorpassata le nostre visioni anche solo di quarant’anni fa; Benedetto XVI ha cercato di rifondare un nuovo quadro comune nella razionalità occidentale. Ora con papa Francesco si sta veramente affrontando il nucleo del problema, e siamo già, dopo tre anni del suo governo, in un movimento ormai inarrestabile nella sua tensione per adeguare ai nuovi tempi il governo della Chiesa universale. In realtà vi sono mutamenti istituzionali che si sono già introdotti in modo quasi sotterraneo, e che – qualsiasi sia la valutazione che si dà sugli avvenimenti – sono destinati a mutare radicalmente il governo della Chiesa. L’attenzione su di essi è stata quasi nulla da parte di teologi o canonisti, ma non possono sfuggire all’attenzione dello storico. Pensiamo ad esempio alla creazione di diocesi non territoriali, di diocesi senza territorio (la “prelatura personale”): un’innovazione che modifica davvero la storia millenaria che noi eravamo abituati a studiare nel diverso rapporto (verticale e di collegialità) tra il papa e l’episcopato territoriale, un ordinamento riepilogato nella doppia persona del pontefice, vescovo di Roma e pastore della chiesa universale, da cui siamo partiti. Mai i grandi ordini religiosi, pur così importanti e potenti, erano riusciti nel passato ad ottenere uno statuto episcopale, cioè di costituirsi in diocesi senza territorio così come è avvenuto ora per l’Opus Dei e come può avvenire in futuro per altre comunità non legate ad un territorio. Si è detto e scritto tante volte che questo è un papa che è venuto dalla fine del mondo (finis terrae), dalla periferia. Forse è proprio l’opposto: tutto si sta spostando e non vi è più un rapporto centro-perifera (secondo lo schema ereditato dall’impero romano) come fondamento del primato petrino per garantire l’unità della Chiesa: sta nascendo qualcosa di nuovo.

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>>>> pietro e francesco 

La riforma implicita 

>>>> Marco Ventura

Gennaro Acquaviva celebra i tre anni del pontificato di Francesco con un riconoscimento dello straordinario ministero cristiano di papa Bergoglio, “pastore e guida spirituale dell’umanità intera”, e con un interrogativo sulla riforma della Chiesa che da esso potrà scaturire. In questo testo rispondo a ciascuna delle due sollecitazioni: al riconoscimento della svolta e all’interrogativo sui suoi frutti. In un primo tempo collocherò l’annuncio di Cristo di papa Francesco nell’orizzonte descritto da tre grandi processi storici riguardanti la religione in generale e il cattolicesimo in particolare: la spiritualizzazione, la mondializzazione e la cristianizzazione. Spiegherò il significato di ciascuno di questi tre termini e in che senso il pontificato di Francesco mi paia incarnare i tre processi. In un secondo tempo, seguirà la mia risposta all’interrogativo sulla riforma di Francesco. In proposito, farò notare la tensione tra la riforma implicita e la riforma esplicita, ovvero tra la riforma innescata dall’esempio del papa, dal suo stile (e perciò fluida e aperta), e la riforma direttamente operata, in particolare nel governo pontificio ed episcopale e nell’amministrazione dei sacramenti. Concluderò a mia volta con un interrogativo: Francesco sta mutando il cattolicesimo in profondità, oppure il suo annuncio di misericordia, la sua attenzione ad accogliere e facilitare, sono una sofisticata edizione postmoderna del centralismo romano e del suo sistema di potere?[1- Per il retroterra di queste mie riflessioni rinvio a M. VENTURA, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede (Einaudi, 2014).-
La spiritualizzazione, la mondializzazione e la cristianizzazione sono i tre processi storici nei quali ritengo vada collocata l’esperienza pontificia di Bergoglio. Spiegherò brevemente cosa intendo per ciascuno dei tre e in che modo collego i tre processi al pontificato di Francesco, e in particolare al suo annuncio della nascita, morte e risurrezione di Cristo. Con il termine spiritualizzazione designo il percorso storico che muove i credenti in generale e i cristiani in particolare verso le fonti della loro fede e della loro esperienza religiosa. Da quel movimento deriva la tensione a sperimentare autenticamente la propria relazione con il divino, in forma individuale e collettiva. Colloco qui il ruolo decisivo in Francesco dell’individuo e del popolo. Nell’incontro con Cristo l’individuo è il protagonista del peccato, della misericordia, della salvezza. Bergoglio è anzitutto l’uomo che vive la grazia di Dio, e che da pastore la amministra all’altro. In egual modo, il popolo è il protagonista dell’incontro collettivo col divino ed il metro della sua genuina spiritualità. Il cristianesimo di popolo bergogliano, in cui si fondono popolo cristiano e popolo latino-americano, è il simbolo stesso della spiritualizzazione.[2-Nel suo La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Laterza, 2014) Loris Zanatta coglie nella spiritualizzazione del popolo, e nella conseguente costruzione del mito della “nazione cattolica” la radice della tragedia argentina. La mancata distinzione tra la dimensione politica e la dimensione religiosa e ideologica avrebbe funzionato da innesco della guerra civile in cui si plasmò il ministero di Jorge Bergoglio. In proposito rinvio al mio Gesù guerrigliero, Madonna golpista. I due abbagli dell’Argentina cattolica, in La Lettura, 12 ottobre 2014.-]. 
Per la Chiesa di Roma la de-europeizzazione si accompagna alla de-italianizzazione. L’ultimo papa italiano è morto quasi quarant’anni fa In entrambe le dimensioni, individuale e collettiva, gli aspetti politici ed economici, organizzativi e giuridici sono subordinati alla priorità dell’esperienza spirituale. Essi non sono condannati, espulsi. Sono ridimensionati. E con essi sono ridimensionati non solo il governo della Chiesa, la sovranità della Santa Sede, la sua indipendenza finanziaria e organizzativa, ma addirittura la dottrina della fede e la teologia morale: ciò che conta, ciò che viene al primo posto, ciò che definisce l’identità, è la qualità dell’esperienza spirituale. Con il termine mondializzazione designo il percorso storico che ha spostato il baricentro della religione – del cristianesimo e dello stesso cattolicesimo – fuori dall’Europa. Il numero di chi non si riconosce in alcuna religione è in crescita in Europa, e riguarda un quarto della popolazione in paesi come la Francia, l’Olanda e il Regno Unito. Le stime del Pew Research Center [3-Pew Research Center, The Future of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050, 2 aprile 2015, http://www.pewforum.org/2015/04/02/religious-projections-2010- 2050/. Si veda il mio Diventeremo un po’ più monoteisti, in La Lettura, 19 aprile 2015. ] attestano che per il 2050 quasi il 40% dei cristiani del mondo vivrà nell’Africa sub-sahariana. Nel 1910 il 60% dei cattolici del mondo viveva in Europa. Un secolo dopo il numero è sceso al 25%. Nello stesso periodo, la quota di cattolici sudamericani sul totale mondiale è salita dal 25% al 40%. Per la Chiesa di Roma la de-europeizzazione si accompagna alla de-italianizzazione. L’ultimo papa italiano è morto quasi quarant’anni fa. Nel conclave che ha eletto Bergoglio per l’elettorato cardinalizio mondiale non vi erano candidati italiani significativi. La mondializzazione – e la de-europeizzazione – comportano un nuovo modo di parlare della fede e di viverla. I cattolici non europei sono spesso minoranza nel paese in cui vivono, sono più giovani d’età e di storia ecclesiale, raramente godono del supporto dello Stato, pesano meno in politica. L’annuncio cristiano di papa Francesco trasforma un fenomeno demografico e statistico in nuovo contesto dell’incarnazione. Con il termine cristianizzazione raggruppo vari fenomeni di natura diversa riconducibili alla crescita della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. È in controtendenza l’Occidente, dove cresce il numero dei non aff iliati ad alcuna religione (tra essi peraltro, molti rifiutano le chiese e non Cristo): ma in termini assoluti crescono i cristiani nel mondo, e cresce il dinamismo di chiese cui, sempre secondo il Pew Research Center, si convertiranno da qui al 2050 quaranta milioni di persone, quattro volte il numero dei convertiti all’Islam previsti nel medesimo periodo. Le persecuzioni dei cristiani e la popolarità di leader mondiali come papa Francesco, il Patriarca Bartolomeo, Tutu, lo stesso Obama, segnalano la forza di un cristianesimo autorevole e vitale, capace di interagire positivamente con le culture più diverse e di essere seme di non violenza e di pace. 

La profezia di Francesco cammina sul filo della tradizione, e del suo superamento 

La riforma di Francesco è nei suoi gesti, nelle sue parole. Nel suo stile. Le omelie di Santa Marta possono più di un nuovo codice di diritto canonico. La doppia rasatura, il mate, i vecchi amici, le telefonate cambiano più di mille motu proprio. La testimonianza personale è il più potente motore del cambiamento: soprattutto quando si tratta di un papa, nell’era degli idoli di massa e della comunicazione globale. Sappiamo che le norme, le procedure e le istituzioni della Chiesa di Roma ne saranno cambiate. Ma non sappiamo con quale esito. Avvertiamo che dopo i trent’anni dominati dalla teologia e dal governo di Karol Woytila e Joseph Ratzinger – e dopo che la loro stagione ha plasmato la mente e il cuore di un nuovo popolo di fedeli e di un nuovo establishment – siamo ad una svolta. Quanto incisiva, non possiamo sapere. Anche perché non possiamo sapere di quanto tempo disporrà, questa svolta, per plasmare a sua volta le menti e i cuori dei cattolici del futuro. A differenza dei due predecessori, papa Francesco non pare preoccupato di controllare teologia e diritto canonico, di incidere sulla sua Chiesa attraverso la disciplina e la dottrina. Egli si situa altrove, è a suo agio in altre dimensioni. La fluidità e l’apertura della riforma implicita innescata paiono convenirgli, perché convengono al suo senso della profezia. In questa dimensione della riforma, nell’anno del giubileo, sta la “profezia di Francesco” cara a Gennaro Acquaviva. Vi è poi la riforma esplicita, la riforma prodotta. Francesco è anche questo. La sua profezia è anche questo. Francesco ha indetto un sinodo epocale, ha imposto ad esso un sistema di lavoro dalle ricche implicazioni canonistiche rispetto al ruolo del laicato, delle chiese particolari e alla sinodalità e collegialità episcopale. Il pontefice ha anche parlato e fatto molto, esplicitamente, rispetto al proprio ministero petrino: a partire dal suo primo discorso pubblico da vescovo di Roma, la sera dell’elezione. Francesco ha anche fatto valere le proprie prerogative sulla nullità del matrimonio, e cioè, indirettamente, sull’accesso dei divorziati ai sacramenti. La riforma esplicita di papa Bergoglio è già sostanziosa, e controversa. Egli riconosce le prerogative dei vescovi e dei laici, e ne sollecita la responsabilità. Alcune novità collidono con principi consolidati e con mentalità acquisite. La denuncia delle malattie del governo ecclesiastico, ad esempio, nel discorso alla Curia romana di fine 2014 sconfessa un sistema di governo. Alcune competenze dei laici sfidano il nesso tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione. Certe dinamiche episcopali, e l’invito alle chiese particolari sparse nel mondo a decidere per sé con coraggio, sfidano il primato pontificio. La nuova nullità matrimoniale somiglia sempre più a un divorzio. Dopo trent’anni di compattezza teologica e canonica, il nuovo appare discontinuo e incongruo. [4 - Si veda, per la riforma delle nullità matrimoniali, la critica di G. Boni (La recente riforma del processo di nullità matrimoniale. Problemi, criticità, dubbi), in Statoechiese.it, 7 marzo 2016.]. Proprio per questo – perché innova su aspetti cruciali e sensibili, perché si pone in sintonia con i tre processi storici, perché prende rischi – il significato della riforma esplicita operata da Francesco è grande. E non meno espressivo della forza profetica del suo pontificato. Francesco è “profeta di un futuro che non gli appartiene” per ché lo inizia non solo con la sua testimonianza personale, ma anche con le sue riforme esplicite. Quanto è profonda, la profezia di Francesco, quanto è autenticamente rinnovatrice? È questa la domanda cruciale. I critici del Pontefice, dalle diverse posizioni, lo attendono al guado. Dentro la Chiesa di Roma, per i conservatori, il rinnovamento è imponente, reale, e perciò temibile [5-In relazione alla preghiera interreligiosa del 6 gennaio 2016 condotta da Francesco, Mons. Bernard Tissier de Mallerais, vescovo ausiliario della Fraternità San Pio X, ha espresso la propria indignazione e ha condannato nel modo seguente il relativismo del pontefice: “Francesco ha detto esattamente: ‘Molti pensano in modo diverso, sentono in modo diverso, cercano Dio o trovano Dio in diverse modi’. Quindi, poco importa la realtà oggettiva di Dio, l’importante è il feeling, il sentimento di ciascuno riguardo a Dio o alla religione. Ogni uomo si crea un Dio di suo gusto. E papa Francesco non dà alcun giudizio su un tale relativismo, un tale modernismo. Noi abbiamo un papa che lascia che si propaghi la religione su misura di ciascuno. La definisce la “ricerca” della verità. Ma la Verità è una, è Nostro Signore Gesù Cristo, che solo dice: ‘Io sono la Via, la Verità e la Vita’(Giov 14, 6). Solo il Verbo incarnato, l’unico Salvatore degli uomini, è la Verità. La buona volontà di quelli che ignorano ed errano non li salva. La buona volontà non salva nessuno, solo la Verità salva” ( http://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=1765:intervista-con-mons-bernard-tissier demallerais&catid=64&Itemid=81 ).]. Per i riformatori, il rinnovamento non è sufficiente, o è superficiale. Oppure rischia di essere una riforma della curia, a fronte del bisogno di una riforma della Chiesa. [6-Si veda in tal senso S. DIANICH, La Chiesa cattolica verso la sua riforma, Queriniana, 2014.]. Fuori di essa, nelle altre chiese cristiane, è forte il pregiudizio che il cattolicesimo romano di sempre stia solo cambiando pelle: che ciò che conta per Roma, ancora una volta, sia perpetuare il proprio potere spirituale, economico e politico. Il cattolicesimo romano si dimostrerebbe il genere di cristianesimo più capace di intercettare la domanda di spiritualità e di appartenenza, di individualità e di popolo, di coscienza e di norme. Abbracciando omosessuali e divorziati, evangelici e pentecostali, tra un incontro con il Patriarca di Costantinopoli e uno con il Patriarca di Mosca in nome dell’unità dei cristiani davanti alle persecuzioni, il cattolicesimo globalizzato di Bergoglio inghiottirebbe pezzi di cristianità e supererebbe in numero di fedeli l’insieme delle chiese protestanti. Una stagione inclusiva e dialogante sarebbe, in tal senso, una manovra astuta e tempestiva: in perfetta aderenza con lo stereotipo del gesuita. I risentimenti storici sono forti, gli schemi del passato resistono, le sfide del presente sono terribili. A questa prova è atteso Jorge Bergoglio: la profezia di Francesco cammina sul filo della tradizione, e del suo superamento.

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>>>> pietro e francesco 

La lotta alla corruzione 

>>>> Michele Riondino


Sin dalle prime battute del suo ministero papa Francesco ha rivolto una particolare attenzione al tema della tutela del bene comune, e segnatamente agli effetti che la corruzione è in grado di produrre a danno della società. A tale proposito appare opportuno richiamare fin d’ora due pronunciamenti magisteriali del Pontefice presenti in alcuni passaggi della Evangelii gaudium, e successivamente nel discorso rivolto dal Papa alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, ricevuta in Vaticano il 23 ottobre del 2014. Da un punto di vista strettamente normativo – e in linea con la più ampia riforma della Curia Romana più volte annunciata dal Vescovo di Roma – giova inoltre ricordare la riorganizzazione, ad opera di papa Francesco, degli organismi economico-finanziari della Santa Sede che operano nello Stato della Città del Vaticano [1- Cfr. M.J. ARROBA CONDE – M. RIONDINO, Introduzione al diritto canonico, Milano, 2015, pp. 157-161. ]. In poco più di tre anni di pontificato Francesco ha fatto riferimento in forma esplicita al tema della corruzione in circa cinquanta occasioni. Per ragioni di obbligata brevità penso siano degni di nota i richiami presenti nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium, risalente al 24 novembre del 2013. Nel cap. II, e precisamente nel n. 56, il Pontefice richiama – in linea con il Magistero sociale dei suoi predecessori – la disparità tra paesi opulenti e paesi “sempre più distanti dal benessere”. La ragione di ciò si rinviene, in via principale, nel predominio che il “facile denaro” ha avuto sugli uomini; di qui il richiamo al fatto che fenomeni corruttivi, ampiamente presenti nelle diverse realtà sociali, sono strettamente collegati alla carenza di valori universali, quali per esempio il riconoscimento dell’altro come essere umano che si pone in relazione con me e non come strumento per raggiungere “facili guadagni” (n. 55). La crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando si inserisce, purtroppo ed inevitabilmente, come conseguenza della negazione dell’essere umano quale realtà relazionale: papa Francesco rimarca senza esitazione che all’origine dell’attuale crisi finanziaria via sia una “profonda crisi antropologica” che porta gli uni (i più potenti) a prevalere sugli altri (i più deboli). Se privilegiare vie non trasparenti per aumentare i propri beni diviene la regola adottata dalle imprese pubbliche, da quelle private e dal mercato, si finirà per promuovere ancor più palesi squilibri tra diverse realtà, all’interno delle quali coloro che vivono situazioni più critiche sono destinati a soccombere. Evitare che i guadagni di pochi crescano esponenzialmente rispetto alla maggioranza non è esclusivamente un principio morale, bensì un vero pilastro portante di una etica comune che non è prerogativa di una confessione o di un’altra. Contrastare il fenomeno della corruzione in tutte le sue forme significa quindi assumere un “impegno comunitario” (da cui prende il titolo il capitolo), che ricade in via principale su coloro i quali hanno maggiori responsabilità pubbliche, istituzionali o di leadership (n. 58). Il duro monito di papa Francesco ha preso corpo in una riforma normativa sui nuovi organismi economici della Santa Sede Al tema della corruzione papa Francesco dedica ulteriori e puntuali riflessioni. La seconda su cui vorrei soffermare l’attenzione è costituita da una critica ad intra che il Pontefice rivolge ad una “Chiesa mondana” (n. 97). Sarebbe eccessivamente lungo ripercorrere i numerosi pronunciamenti del Papa (soprattutto nelle sue omelie a Santa Marta) in cui non si è mai sottratto dal ribadire come gli atteggiamenti che si identificano con una eccessiva mondanità spesso sono legati ad una carenza di autenticità, e conseguentemente a possibili inclinazioni verso ciò che potrebbe essere poco onesto. Francesco ci ricorda inoltre come tra le situazioni più comuni in ambito economico non sia difficile trovare fenomeni corruttivi mascherati da una qualche apparenza di bene (n. 97). Pensiamo per esempio, e limitatamente alla situazione del nostro paese, ai fenomeni corruttivi e di riciclaggio di denaro proveniente da reato ad opera di associazioni a delinquere di stampo mafioso [2 -A tal proposito, seppur con inspiegabile ritardo, anche l’Italia ha cercato di adeguarsi alla normativa europea e transnazionale in materia. Non possiamo non menzionare alcune tra le modifiche normative introdotte di recente, come per esempio l’istituzione di una Autorità nazionale anticorruzione, istituita con il Decreto legge 90/2014 (poi convertito nella legge n. 114/2014) o le misure di prevenzione introdotte a seguito della entrata in vigore della legge n. 190/2012. ]. Il duro monito di papa Francesco ha preso corpo in una riforma normativa sui nuovi organismi economici della Santa Sede, peraltro già iniziata da Benedetto XVI nel 2010 con l’istituzione dell’Autorità di informazione finanziaria (Aif), a seguito dell’entrata in vigore della lettera data in forma di motu proprio sulla “Prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario” del 30 dicembre del 2010. Per quanto attiene al rapporto tra la Santa Sede e la normativa europea ricordiamo, per esempio, l’istituzione nel 1997, ad opera del Consiglio d’Europa di Moneyval quale organo principale di monitoraggio riconosciuto a livello europeo in materia di contrasto al riciclaggio, cui la Santa Sede ha aderito inoltrando ufficiale richiesta nel 2011, accettata l’anno successivo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa [3-Cfr. A. SARAIS, La valutazione di Moneyval nei confronti della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano in materia di lotta contro il riciclaggio dei capitali ed il finanziamento del terrorismo, in Il Diritto Ecclesiastico 123 (2012), pp. 209-224. ]. Nel discorso rivolto alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale del 23 ottobre del 2014 – dopo aver ribadito la reale necessità di un ripensamento dell’assetto penalistico nei diversi paesi, invitando i giuristi alla missione originaria di ricorrere al sistema sanzionatorio quale extrema ratio, senza dimenticare il fallimento che la giustizia penale tradizionale attraversa da decenni – il Pontefice si sofferma su alcune tipologie di reati sempre più in aumento, richiamando esplicitamente alcuni principi già emersi nella lettera che papa Bergoglio aveva inviato ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’associazione [4-Cfr. L. EEUSEBI, Un’asimmetria necessaria tra il delitto e la pena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale LVII (2014), pp. 1022-1029. ] . 
Nella terza parte del suo discorso il Pontefice fa riferimento a due fattispecie criminose, o tipologie delittuose: la tratta delle persone, con particolare riferimento all’abuso, sfruttamento e commercio di minori ed anziani (non esitando a definirli veri e propri “crimini di lesa umanità” che il più delle volte sono posti in essere anche grazie alla “collaborazione degli Stati”), e la corruzione, dedicando a quest’ultima interessanti riflessioni. 

La risposta sanzionatoria alla corruzione “è come una rete che cattura solo i pesci piccoli” 

Fin dall’incipit del suo discorso papa Francesco ricorda come la “scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con poteri forti”, e – riprendendo il passaggio evangelico dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-8) – afferma che non ci sia cosa più difficile che aprire una “breccia in un cuore corrotto”. Ed è proprio su questa base che il Pontefice sofferma la sua attenzione e ci propone riflessioni che ampliano ed arricchiscono il precedente magistero della Chiesa in tema di bene comune. Dopo aver rammentato che la via privilegiata e più comune alla corruzione coincide con la scelta di “scorciatoie poco lecite” che portano alcuni a considerare gli uomini solo come mezzi utili ai fini di un arricchimento, definisce la corruzione come “un male più grande del peccato” che necessita di essere curato, e non tanto perdonato. Il fatto più drammatico è che il fenomeno della corruzione sia divenuto, negli anni, un fenomeno da molti definito naturale, sino ad arrivare a costituire uno stato personale legato, per esempio, alla non trasparenza nelle transazioni commerciali e finanziarie a tutti gli stadi e livelli. Riferendosi infine in modo più diretto alla platea che aveva di fronte, papa Francesco offre alcuni spunti che potrebbero essere recepiti da molte realtà statuali. Fermo restando l’impegno, in particolare della comunità internazionale, nella lotta alla corruzione perseguita sempre con maggiore incisività con la previsione di maggiore prevenzione o l’aumento delle pene edittali massime previste per coloro che commettono tali illeciti, il Pontefice non manca di sottolineare come, purtroppo, la risposta sanzionatoria continui ad essere troppo spesso selettiva, richiamando una metafora alquanto incisiva: “È come una rete che cattura solo i pesci piccoli”. Non serve spendere molte parole per dire quanto sia urgente perseguire, senza alcuna eccezione e con severità, le forme di corruzione che causano gravi danni sociali, non ultimi quelli di natura economico-finanziaria (pensiamo, ad esempio, ai reati contro la pubblica amministrazione o contro il patrimonio pubblico, oggetto peraltro di continue modifiche da parte di molti ordinamenti statuali). Dai richiami fatti non risulta difficile affermare come il magistero di papa Bergoglio sia alla base dell’impegno di riforma legislativa da lui fortemente voluto ed attuato, in particolare con gli Statuti dei nuovi organismi della Santa Sede. Data la peculiare importanza che oggi ricopre la formulazione di una politica di amministrazione e di controllo programmata in modo razionale e finalizzata a garantire un profilo organizzativo condiviso e funzionale, nei nuovi Statuti trova spazio la previsione esplicita di strumenti che consentano lo sviluppo di indirizzi volti ad una maggiore trasparenza [5- Per una più ampia disamina, cfr. G. DALLA TORRE, Sui nuovi organismi della Santa Sede. Considerazioni generali, in Monitor Ecclesiasticus CXXX (2015), pp. 277-282; C. BEGUS, Sui nuovi organismi della Santa Sede. Cenni di diritto patrimoniale, in Monitor Eccleisasticus CXXX (2015), pp. 289-294; C. PINOTTI, Sui nuovi organismi della Santa Sede. Strutture e competenze, in Monitor Ecclesiasticus CXXX (2015), pp. 283-288 ]. Infatti la pubblicazione degli Statuti di tali nuovi organismi [6-In vigore dal 1° marzo 2015 e facilmente reperibili on line nel sito della Santa Sede] permette di cogliere in modo più chiaro la natura e le finalità in cui si collocano il Consiglio per l’Economia, la Segreteria per l’Economia e l’Ufficio del Revisore Generale. Il nuovo assetto era già stato preannunciato dal Pontefice nella lettera apostolica data in forma di motu proprio “Fidelis dispensator et prudens” del 24 febbraio 2014, dove emergeva l’urgenza di dare alla Chiesa universale una normativa finalizzata a tutelare e gestire con maggiore attenzione i propri beni, finalizzati da sempre al bene comune nella prospettiva dello sviluppo integrale della persona umana. Palese, in proposito, risulta il riferimento alla Dichiarazione di Lima sui principi guida del controllo delle finanze pubbliche del 1977, dove, nel par. II, si ribadisce l’autonomia e l’indipendenza di ogni istituzione superiore di controllo: certamente la Santa Sede, quale soggetto di diritto internazionale, e lo Stato della Città del Vaticano (Scv) hanno inteso recepire, pur nel rispetto delle loro caratteristiche, alcuni tra i principi contenuti nella citata Dichiarazione. Si deve avvertire che con l’istituzione dei nuovi organismi papa Francesco ha voluto affrontare la delicata questione di tutelare e gestire con attenzione i beni (mobiliari ed immobiliari) che appartengono alla Sede Apostolica, nel rispetto della missione di questa e della finalizzazione di quelli a norma dell’ordinamento canonico. Per quanto attiene al profilo nuovo della questione – che consiste in una maggior armonizzazione delle attività economico – finanziarie che fanno capo alla Santa Sede con le richiamate esigenze di trasparenza postulate dagli obiettivi di una gestione finanziaria ed amministrativa etica ed efficientemente orientata conformi con le norme che si sono venute a creare anche in sede internazionale – la riforma voluta da papa Francesco incrementa e completa ciò che già dal 2010 Benedetto XVI aveva attuato. I riferiti Statuti pongono in evidenza che i tre Uffici concorrono, ciascuno secondo le attribuzioni conferite loro e con le definite modalità operative, al perseguimento delle finalità di coordinamento, vigilanza e controllo delle attività amministrative ed economico – finanziarie dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate con la Santa Sede e di quelle che operano nello Stato della Città del Vaticano [7-Cfr. P. CONSORTI, Le riforme economiche di papa Francesco, in Finanze vaticane e Unione europea. Le riforme di papa Francesco e le sfide della vigilanza internazionale, a cura di P. Consorti – E. Bani, Bologna 2015, pp. 7-31.]. 

Prudenza, vigilanza, lealtà e trasparenza, “unite al coraggio
della denuncia”, aiuteranno a debellare la piaga della corruzione 

Da una analisi degli Statuti si evince inoltre, e con maggiore chiarezza, anche la configurazione istituzionale di altre entità che assumono rilevanza per quanto attiene all’attività amministrativa, economica e finanziaria. L’obbligato riferimento va infatti alla già menzionataAif, fortemente voluta da papa Benedetto XVI, i cui rapporti annuali sono consultabili dal 2012 on line, essendo pubblicati sul sito della medesima Autorità. Per quanto attiene al Consiglio per l’Economia (la cui finalità, ex art. 1, consiste nel vigilare sulle strutture amministrative e finanziarie della Santa Sede e dello Scv), gli Statuti non mancano di rammentare come tale funzione debba essere esercitata secondo la Dottrina sociale della Chiesa, con un particolare riferimento alle migliori pratiche riconosciute a livello internazionale in materia di pubblica amministrazione. Le competenze del Consiglio sono delineate, quindi, in modo da esaltare il ruolo strumentale, rispetto alle decisioni del Pontefice, che l’organismo viene ad assumere quale organo deputato alla verifica dei bilanci preventivi annuali della Santa Sede e dello Scv. La nuova architettura è arricchita inoltre dalla previsione normativa volta ad istituire la Segreteria per l’Economia e l’Ufficio del Revisore Generale. La Segreteria, la cui natura è sancita dall’art. 1 dove viene definita come un “dicastero della Curia Romana competente per il controllo e la vigilanza in materia amministrativa e finanziaria”, si colloca in modo subordinato rispetto al Consiglio, in quanto quest’ultimo detiene un potere di direzione e controllo. [8-Opportuna appare inoltre, anche in forza di una più proficua organizzazione e trasparenza, la suddivisione in due distinte sezioni: la Sezione per il Controllo e la Vigilanza (artt. 6-14) e la Sezione Amministrativa (artt. 15-19): la prima finalizzata al monitoraggio delle attività ordinarie dei dicasteri della Curia romana e delle istituzioni collegate alla Santa Sede (art. 8), con una particolare attenzione alle risorse umane, finanziarie e materiali equamente ripartite tra di essi; la seconda finalizzata, in via principale, a porre in atto indirizzi, modelli e procedure in materia di appalti volti ad assicurare che tutti i beni e i servizi necessari alla Santa Sede e alle istituzioni che operano nello Scv siano acquisti nel modo più prudente ed economicamente vantaggioso (art. 15). Entrambe le sezioni sono dirette da un Prelato Segretario Generale, nominato per cinque anni, dal Pontefice (art. 4). ]. Da ultimo, e più marcatamente aderente alle caratteristiche dei cosiddetti “organi di Audit“, trova collocazione l’Ufficio del Revisore generale, che a norma dell’art. 1 dello Statuto è qualificato quale ente della Santa Sede a cui è affidato il compito di revisione dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate alla Santa Sede e di quelle operanti nello Scv. Il Revisore opera in piena autonomia ed indipendenza, seguendo le migliori prassi riconosciute a livello internazionale in materia di pubblica amministrazione, secondo il disposto dell’art. 2. L’art. 6 par. 1 prevede, inoltre, l’integrità, la confidenzialità e la sicurezza delle segnalazioni inerenti ad attività anomale, proteggendo l’identità dei soggetti che effettuano al medesimo Revisore tali segnalazioni. In conclusione, dalla analisi condotta, incentrata sul recente magistero e sulle riforme legislative in tema di contrasto alla corruzione e di tutela del bene comune, emerge come l’impegno assunto da papa Francesco risponda non solo ad una urgenza contingente (illuminata da una continua attenzione ai segni dei tempi) di predisporre modalità più consone, e basate su di una maggiore integrità e trasparenza: bensì ad uno sforzo – in linea con quanto iniziato dai suoi predecessori – di rispondere meglio ai fini naturali e soprannaturali a cui la Chiesa è istituzionalmente preposta, finalità cristallizzate da una tradizione plurisecolare che affonda le sue radici nella Scrittura, nonché nel libro V del Codice di diritto canonico del 1983 sui beni temporali della Chiesa. Alcune settimane fa, a margine di un convegno che si è svolto alla Camera dei Deputati, Frans Timmernans, primo vicepresidente della Commissione europea, ha affermato che “nessuna società cresce se non è comunità”. Ebbene, ancora una volta l’impegno di papa Francesco illumina e guida i difficili passi in avanti, a volte impopolari ed impervi, già intrapresi e quelli che verranno: finalizzati ad operare in vista di una maggiore integrità e trasparenza al servizio della comunità, e di conseguenza del bene di ogni persona. A ciò inevitabilmente si dovranno aggiungere prudenza, vigilanza, lealtà e trasparenza: caratteristiche che, “unite al coraggio della denuncia”, aiuteranno ad evitare anche la pur minima corresponsabilità o complicità di fronte a fenomeni legati alla corruzione, come ha affermato il Pontefice nel n. 19 della Bolla di indizione del giubileo Misericordiae Vultus dell’11 aprile 2015.


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>>>> pietro e francesco 

Il Papa e l’Italia 

>>>> Gennaro Acquaviva


Una premessa: ci interessiamo e torniamo ad interrogarci sul destino del “governo del papa” per quello che siamo, e cioè da socialisti italiani, eredi non solo del “concordatario” Craxi. Lo facciamo in particolare perché è fuori di dubbio che il papato ha avuto e continuerà ad avere un ruolo molto importante in Italia. Il mondo solidale rappresentato da una Chiesa che tuttora cammina pellegrina sulla terra che è la terra di tutti gli italiani non è infatti ancora del tutto impotente o inefficiente rispetto ai problemi ed ai drammi che ci circondano, come sembrano ritenere oggi anche alcuni dei suoi stessi pastori. Il popolo cattolico che qui vive, lavora, prega e opera nella carità è infatti ancora oggi una realtà viva, vitale e decisiva per l’Italia, al cui destino esso è unita attraverso mille fili. La mia convinzione è che, anche se molti nelle sue file sono intimoriti ed incerti di fronte alle difficoltà dell’ora presente, questo popolo cattolico ha il dovere di tornare a ricordarsi che esso è parte essenziale di una comunità di persone che riconosce la politica come la più alta forma di carità per un cristiano. È infatti questa la ragione elementare che ha reso e rende unici (e, ripeto, decisivi) ancora oggi i cattolici nella vicenda sociale e politica del nostro paese: semplicemente perché essi sono – lo vogliano o no, ne siano coscienti o no - una risorsa preziosa per la politica, forse l’unica ancora praticabile, assieme a quella espressa cocciutamente da chi vuole far riemergere, ma soprattutto far vivere, i valori ed i programmi di un socialismo liberale e riformatore. Torniamo dunque ad occuparci del destino di questo popolo di credenti in Gesù Cristo chiamato all’appello del rinnovamento dalla predicazione pastorale e dall’esempio di un papa che - pur se viene “dalla fine del mondo” - ha mostrato di essere portatore di capacità e volontà non tradizionali. Seguendo il percorso da lui indicato ci siamo proposti di confrontarlo con l’equilibrio raggiunto nei secoli passati dal governo del papa, e cioè da un governo romanocentrico oggi obbligatoriamente immerso nell’universalismo dell’impegno planetario della azione della sua Chiesa. Ne è emersa, come prima questione, la necessità di riconsiderare i termini stessi di una riforma del “Primato petrino”, e cioè di quel principio fondante a cui è legata indissolubilmente la funzione del vescovo di Roma nella vita della Chiesa. Abbiamo infine riconosciuto che individuare una sua riforma è questione preliminare e comunque coessenziale all’azione riformatrice: e cioè alla costruzione degli atti successivi destinati a produrre rinnovate fattezze organizzative e gestionali nel governo del papa. Rispetto a questo percorso è parso infine evidente che l’attuazione di questa riforma è destinata a produrre conseguenze anche sulla gestione e funzione della Chiesa italiana, non foss’altro perchè non vi può essere “universalità” senza “romanità”.

 Wojtyla diventa papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi dopo quella di Montini 

Cerco di proporre una spiegazione di questa proposizione finale. Quando, nell’ottobre del 1978, un vescovo polacco titolare della diocesi di Cracovia venne eletto pontefice dopo quasi cinquecento anni di costante preferenza italiana, la preoccupazione che indubbiamente attraversò l’animo di quel conclave nasceva dal fatto che quella antica e venerata tradizione era riconosciuta legittima ed anche utile dall’intera Chiesa universale: e non solo come vincolo geopolitico, ma soprattutto come importante condizione di “facilitazione” nella gestione della sede di Pietro, plasmata appunto per lunghi secoli dalla eccezionale peculiarità di un rapporto che era venuto acquisendo qualcosa di sacrale rispetto ad un luogo, ad una cultura, ad un popolo. Questo legame, evidente lungo molti secoli, era tornato ad apparire di grande attualità proprio in quegli anni che si incrociarono con l’elezione di Giovanni Paolo II. Wojtyla diventa infatti papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi dopo quella di Montini: vicende che oggi ci fanno evocare immediatamente la crisi della Dc, e non solo come tragica metafora. Per molti è infatti ora chiaro che l’esistenza in Italia di un partito cattolico così forte e così pervasivo come era stata la Democrazia cristiana (anche rispetto alle articolazioni più intime della Chiesa), aveva inevitabilmente svolto un ruolo importante nel favorire o nel deprimere la formazione della classe dirigente della Chiesa di Roma. Uno che di queste cose se ne intendeva, Gianni Baget Bozzo, ricordò già nel 1994 una semplice verità: “Non si può valutare la storia della Chiesa in Italia senza considerare come suo maggior risultato proprio l’unità dei cattolici attorno alla Dc. La Dc è parte determinante della realtà della Chiesa in Italia in questi ultimi cinquant’anni. Non c’è altro settore della vita ecclesiale che sia così rilevante e determinante”. E aggiungeva: “La Dc ha svolto nel XX secolo la funzione che gli Stati della Chiesa hanno svolto per millequattrocento anni”. [1- G. BAGET BOZZO, Cattolici e democristiani, Rizzoli, 1994, p. 7. e p. 27.] . Oggi, a quasi quarant’anni da quegli eventi, penso che possiamo serenamente prendere atto anche noi delle consequenzialità allora così realizzatesi, ma anche degli inevitabili sviluppi a cui quelle vicende hanno dato luogo fino al giorno d’oggi. Una parola sullo specifico della Chiesa italiana e del suo governo, la cui condizione vitale (e, diciamo, anche funzionale e organizzativa) ha dovuto reagire (e si è quindi, nel tempo, inevitabilmente dovuta confrontare e plasmare) anche rispetto a questi accadimenti e condizioni post 1978. Possiamo tornare a ricordare sinteticamente i tre momenti che ne hanno indirizzato il percorso: la costituzione (1984-86) della Conferenza episcopale in forma organica e rappresentativa, dotata di mezzi che ne hanno fatto una struttura forte e ben funzionante; la scomparsa della Dc (1994), traumatica per l’insieme della cattolicità italiana; la costante presenza al vertice della Chiesa di un papa non italiano. Il tessuto della cattolicità italiana non solo non sembra oggi in grado di assolvere ad una funzione di sostegno nella riforma del governo papale, ma rischia addirittura di essere ostacolo obiettivo ad un suo utile e proficuo dispiegarsi Sono state queste tre condizioni oggettive che hanno portato alla costruzione delle principali modalità di azione che hanno presieduto all’organizzazione più recente della Chiesa italiana. Esse sono infatti all’origine della stabilizzazione e gestione del nuovo strumento di rappresentanza e di governo rappresentato dalla Cei; e sono sempre esse che hanno dato fondamento a quella che a me sembra essere la sua più significativa caratteristica odierna, tra l’altro fonte di esplicita contraddizione proprio rispetto alle modalità di governo perseguite da Papa Francesco: e cioè l’applicazione costante di un forte principio di centralizzazione, inserito a sua volta in uno schema gerarchizzato e fondamentalmente romanocentrico. Occorre infine ricordare che questo è avvenuto nella permanenza di un consenso effettivo e generalizzato da parte dei vescovi italiani, guidati per quasi vent’anni da un autorevole e abile presidente quale è stato il cardinale Ruini, che ha potuto godere anche di una costante fiducia papale. Per avanzare un giudizio sintetico su questa evoluzione, mi sembra che possiamo riconoscere che si è trattato della costruzione di una intelaiatura pensata per la “navigazione ordinaria” di un vascello che, di contro, si è invece sempre più trovato sospinto entro la eccezionalità di una crisi politica, sociale e culturale che assumeva rilievo e dimensioni epocali: in Italia come in un Occidente in decadenza. Ciò ha prodotto il risultato che - al di sotto di vertici centralizzati che anche per questo sono stati portatori di alta visibilità - il tessuto della cattolicità italiana non solo non sembra oggi in grado di assolvere ad una funzione di sostegno o quantomeno di supplenza nella riforma del governo papale, ma rischia addirittura di essere ostacolo obiettivo ad un suo utile e proficuo dispiegarsi. Non intendo naturalmente tralasciare il fatto che, in tutti questi lunghi quarant’anni, la tradizione cattolica ha continuato a permanere radicata e diffusa nella società italiana: sia nella sua vasta base popolare che nell’infinito apporto di carità concreta, come nella diffusissima e tuttora vitale presenza della sua rete parrocchiale. Ma con quali conseguenze rispetto alla sua tradizione e funzione, interna ed esterna, radicata e fondata su di un retaggio secolare? È proprio un cattolico “figlio di obbedienza” (come lui si professa), Giuseppe De Rita, che ci indica una chiave di lettura condivisibile rispetto a questo quesito. In una recente lettera aperta egli esprime la sensazione “che i vescovi italiani, pur sentendosi partecipi degli sforzi di innovazione del Pontefice, non riescono poi a radicarli nella testa e nell’azione delle tante parrocchie, lasciate spesso alla routine quotidiana se non ad un dubitoso attendismo.” Prosegue De Rita: “Chi, come me, ha vissuto con partecipe convinzione il periodo post-conciliare e ‘montiniano’ della Chiesa italiana ricorda bene che in quel periodo non c’èra vuoto intermedio: i vescovi erano tutti motivati a seguire ed alimentare la linea papale, con un impegno convinto e diffuso delle varie comunità locali (si pensi alle decine e decine di appuntamenti diocesani organizzati fra il ’74 e il ’76, in preparazione al Convegno su Evangelizzazione e Promozione Umana). Poi il governo della Chiesa è diventato carismatico ed a forte verticalizzazione, con un progressivo impoverimento sia delle sedi intermedie che delle comunità locali.” Questo vuoto intermedio non è casuale o transitorio, conclude De Rita: “Non è un episodio congiunturale”. Possiamo far punto qui per quello che ci interessava dire, giunti a questo punto della riflessione. Forse è utile solo aggiungere che la condizione della Chiesa italiana descritta da De Rita costituisce anche un danno grave per la nostra società, come possiamo constatare oggi giorno rispetto allo svolgersi della nostra specifica crisi d’epoca: ma è probabile che essa possa essere un danno o un ostacolo non meno grave anche rispetto al rinnovamento del governo del vertice papale. Non fosse altro perché esso, come abbiamo descritto, è vitalmente ed inevitabilmente collegato con la Chiesa italiana per mille ragioni storiche ed umane, e quindi esposto al rischio costante della crescita ulteriore della tradizionale verticalizzazione nel governo del Vescovo di Roma: il quale è prigioniero, in qualche maniera (pur se indirettamente e certamente involontariamente), dei guasti di una tendenza conservativa che parte di fatto dalla “sua” diocesi e che rischia così di ostacolare la liberazione delle sue migliori energie, certamente presenti, probabilmente ancora all’altezza dell’impegno, e comunque molto utili per tornare a garantire una supplenza ancora storicamente necessaria.