mercoledì 18 maggio 2016

Un contributo di analisi e approfondimento per gli “Stati Generali di Sovranità Popolare”

Assemblea Nazionale del 22 Maggio 
Istituto S.Orsola, Via Livorno 50 - Roma

1.       UNA RADICE COMUNE

Pur senza titolo di rappresentanza da parte di alcuna delle Associazioni con cui è stato iniziato questo percorso, si sente l’obbligo d‘essere  con Voi e di offrire con spirito responsabile un contributo di riflessione comune e di approfondimento.
Sebbene con tutti i distinguo che caratterizzano le diverse storie e posizioni (e ce ne sono molti!) si è spinti verso l’opportunità oggi offerta di esprimere solidarietà e condivisione dei sentimenti che ci animano tutti.
Nella diversità, un unico sentimento ci muove, perché vogliamo in fondo la stessa cosa : difendere la nostra Carta Costituzionale; perché soggettivamente o oggettivamente che sia,  la percepiamo in pericolo; perché la riteniamo rappresentativa della nostra civiltà, della nostra cultura e del nostro Paese; perché siamo animati dallo stesso imperativo: difendere un Bene Comune che ci appare  compromesso da fatti recenti e da comportamenti politici o avvenimenti economici e finanziari che riteniamo disallineati da quanto la stessa Carta Costituzionale avrebbe richiesto. 
Per queste ragioni, pur senza essere esperti costituzionalisti, ci siamo interrogati e abbiamo trovato chi ha posto la sua esperienza a servizio di coloro che si pongono le nostre stesse domande, anche nella diversità delle risposte e degli approcci per i rimedi necessari.
Se un merito ha avuto questa crisi che ci attanaglia da diversi anni è l’aver risvegliato in noi tutti un sentimento  assopito nel tempo : l’amore e la responsabile preoccupazione per il nostro Paese, per il suo futuro nel Mondo, per ciò che esso rappresenta per ciascuno di noi; per la necessità di una speranza, specialmente per le generazioni che verranno; per quegli stessi figli d’Italia che si sono incamminati su percorsi artigianali, professionali ed intellettuali e oggi sono costretti a migrare non più per un lavoro di rilievo, ma per la semplice sopravvivenza che l’Italia, purtroppo, non riesce più ad assicurare.
Senza voler polemizzare, c’è da domandarsi  se sia ancora necessaria una dichiarazione d’indipendenza; perché la storia ci testimonia che essa c’è già stata. C’è stata con le guerre combattute dai nostri padri per riscattarci da quei poteri in Europa che per loro convenienza ci hanno sempre voluti “calpesti e derisi”. C’è stata sulle montagne del Carso per impedire allo straniero il passaggio del Piave, salvo poi subire una “pace tradita” e sfociare in un regime che, per mire espansionistiche o per difesa, ci ha comunque ricondotto in una seconda guerra mondiale che ha visto l’orrore dell’Olocausto e delle leggi razziali. L’esplicita dichiarazione d’indipendenza c’è già stata con il sacrificio dei nostri padri che hanno subito con onore la guerra sul fronte russo o africano,  la prigionia e la deportazione per difendere la nostra terra; c’è stata con il sacrificio di coloro che per l’incolumità di se stessi e delle proprie famiglie hanno accettato - pur su fronti opposti - il reclutamento nella Repubblica di Salò oppure tra le file dei partigiani che hanno animato la Resistenza e la Liberazione.
Pensiamo di saper bene da dove la crisi attuale giunge. Ma, forse, non è difficile dire per l’uomo comune se siamo in questa crisi profonda per le eventuali carenze che la Carta Costituzionale può aver mostrato nel tempo o se a causa di  qualcuno o qualcosa di più profondo che nel fluire del tempo e nel mutare dei valori ha mutato natura, sospinto da un interesse individuale che ha fagocitato l’interesse collettivo, che ha sostituito il conflitto alla ricerca del bene generalizzato , per paura di perdere l’egemonia e i privilegi acquisiti. Eppure i Padri ce l’hanno lasciato scritto in chiaro nel nostro dna-fondativo:
“Da sempre noi fummo calpesti e derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi”.
Non è forse proprio questo che occorre recuperare? La “consapevolezza dell’epoca costituente”, allorquando l’avversario, nel gioco di una democrazia condivisa,  era ritenuto essenziale per il suo ruolo d’opposizione e comunque stimato per la sua integrità e dedizione nel tendere al Bene Comune,  a prescindere dagli orientamenti e posizioni nel Parlamento. Occorre recuperare la convinzione che la provenienza da un credo comunista, liberale o cristiano possa  comunque condurre ad agire per il bene di un Popolo in cammino; popolo che guidato dalla sua millenaria cultura, pur nella frammentarietà, ha di fatto mostrato i suoi valori nelle sue scelte di fondo, nella capacità di ricostruzione e nel boom economico; quello della cinquecento e seicento Fiat, della lambretta, dell’Olivetti, dell’IRI e del perseguimento di un’intrapresa famigliare, evidenziando la straordinaria produttività di un tessuto di piccole e medie imprese ancora presenti, accanto ad eccellenze come la Ferrari, la Cogne e la siderurgia nazionale, la chimica e la farmaceutica di spicco, la ricreata credibilità in Europa che ha permesso di essere tra i paesi fondatori, prima della CECA, fino a giungere all’odierna UE. Tutto ciò, sebbene tra le manovre di Gladio da un lato e del KGB dall’altro, ha mostrato le potenzialità di un popolo che sono man mano state volontariamente ridimensionate a partire dalla caduta del Muro di Berlino, in nome di un progetto universalista che pensa di poter fare a meno della democrazia e del diritto di determinazione dei popoli, dei diritti umani  e della solidarietà che necessariamente sottendeva il progetto di una Società delle Nazioni e di una fratellanza universale. Siamo così giunti ai nostri giorni e alla necessità di “Ripensare l’Europa”.

2.       RIPENSARE L’EUROPA

Ispirata a una visione liberista che vede nell’intervento dello Stato un’indebita intromissione nel libero scambio e nella libertà d’impresa necessari all’economia, l’Unione Europea - evitando accuratamente di riaffermare nella propria Costituzione le proprie radici giudaico-cristiane - si è strutturata intorno ai concetti di libera circolazione delle merci, dei capitali, delle persone, dei  servizi, del lavoro.
La globalizzazione dei mercati ha fatto crollare i muri e rimossi i fili spinati eretti dopo Yalta, non solo per motivi economici e di sovranità su un territorio. Grazie alla diffusione della tecnologia elettronica ed informatica si è realizzato quel “villaggio globale” che il sociologo canadese Marshall Mc Lhuan aveva intravisto e predetto anzitempo.
In oltre mezzo secolo dai trattati di Roma, nonostante le evidenti potenzialità che un’impostazione liberoscambista può portare con sé, sono chiaramente emersi i limiti di un estremismo liberista senza controllo, i quali non hanno però impedito all’Europa di godere un lungo periodo di pace e di sviluppo, dagli anni dei primi trattati post-bellici sino ad oggi; cosicché l’Unione Europea si è posta di fronte al mondo come esempio di speranza per l’umanità tutta.
 Allo stesso modo, la “globalizzazione non governata” ha prodotto acutizzazione delle differenze, crisi politico-economiche diffuse e sconquassi di ordini preesistenti, mostrando limiti che non hanno, però, impedito all’umanità di rendersi consapevole dell’intimo legame a un comune destino su questo pianeta, dove l’azione di una parte di umanità si ripercuote in modo evidente sull’altra parte; dove le risorse disponibili devono necessariamente essere condivise senza sprechi in un’ottica di salvaguardia del creato e a beneficio delle generazioni a venire.
Poi è giunta la crisi del 2008 difficilmente inquadrabile in contesti ciclici dell’economia, ma con una genesi ben individuabile nella finanza internazionale. Essa, con i suoi connotati pseudo-strutturali che è venuta man mano assumendo, ha sollevato interrogativi molto seri sul processo d’integrazione europeo che va avanti dalla fine della seconda guerra mondiale.
Cosicché i popoli europei - e non i governi (cosa che ha indotto crisi di rappresentanza nelle politiche nazionali con aggravamento della sfiducia nelle istituzioni già compromesse) - hanno incominciato ad interessarsi ed interrogarsi sui risultati del processo d’integrazione e sulla vera natura della struttura politico-burocratica messa in piedi a Bruxelles per la costruzione dell’Unione, che peraltro  assorbe cospicue risorse. Così gli Europei hanno scoperto come nonostante sia trascorso mezzo secolo nel lavorio d’integrazione il Consiglio Europeo continua a somigliare più ad un agglomerato sporadico di Capi di Governo nazionali, piuttosto che ad un Organismo Esecutivo dell’Unione. Peraltro, il processo decisionale del Consiglio è apparso sbilanciato dal peso degli interessi dei paesi più “forti” e che “più contano” offuscando la formazione delle decisioni da assumere in un’ottica di “servizio”, sempre ed esclusivamente, in funzione del bene comune dei Popoli dell’Unione. Essi hanno potuto anche constatare come il  Parlamento Europeo eletto attraverso un processo democratico permane marginale e spesso subordinato ad una Commissione insediata attraverso “sistemi” percepiti come “poco chiari”, che si prestano a quella facile critica verso i membri della Commissione:  “maggiordomi scelti per il banchetto delle banche”.
Tenuto conto degli effettivi ed evidenti risultati conseguiti nella libera circolazione delle persone, i popoli europei si sono anche interrogati circa il grado d’integrazione che hanno effettivamente raggiunto e alcuni ritengono di aver scoperto che l’integrazione effettiva (specie nel campo dei servizi, ma non solo) è oggi più bassa di quella preesistente negli anni 80 allorquando si aveva come obbiettivo l’Europa del 92.
Interrogativi ancora più seri li ha sollevati l’euro; moneta unica adottata dall’Unione Europea senza che si fosse ancora consolidato il processo unificatore in atto. In molti paesi dell’Unione – come pure nel nostro - si sono, così, sviluppati consistenti movimenti politici contrari all’euro e talvolta non solo a questa Europa, bensì contrari allo stesso ideale di un’Europa Unita. Tali movimenti sono nati oggettivamente, ancorché dalla strumentalizzazione del malcontento a fini politici, dalla diffusa percezione di una sorta di “tradimento” delle impostazioni che i Padri Fondatori dell’Europa (e a questo riguardo riemergono i nomi di tre cattolici : Adenauer, De Gasperi, Schuman) avevano delineato per quell’Europa cui essi anelavano in una prospettiva di bene comune. Insomma, oggi s’invoca “un’Europa dei Popoli e non un’Europa delle banche” mentre si depreca “una moneta senza Stato, con interi Stati senza moneta”; considerazioni che sempre più spesso si ascoltano nei discorsi di comuni cittadini, sedicenti “delusi” per la divaricazione delle differenze prodotte dai tentativi d’integrazione e per la disattesa perequazione delle diseguaglianze regionali che sarebbe stata, invece, necessaria.
Appare difficile contestare opinioni formatesi dinanzi ad una recente mappa monetaria dell’Europa con un nord a tripla A che induce tensioni nei “paesi barriera” a tripla B, la cui funzione di “periferia cuscinetto” è apparsa essere quella di argine per sostenere l’urto, specie migratorio, e non turbare il privilegio del “centro”. Per di più, se si evidenzia che ad esclusione della Germania, solo i Paesi Membri dell’Unione che hanno conservato la propria moneta nazionale hanno condizioni economiche da tripla A, allora diviene comprensibile la critica alla moneta comune che poggia sulla rivendicazione di una perduta sovranità monetaria nazionale di cui si incolpa la politica. Questa critica è talvolta mossa, da movimenti estremisti o nazionalisti, ancor più alla politica europea sostenendo che i paesi del sud europeo, guarda caso tutti di religione cattolica, li si vuole necessariamente tenere - attraverso “giochi di finanza internazionale” - in uno stato di sudditanza economico-finanziaria li dove sono stati collocati. In questo modo si giunge a “tesi complottiste” che sfociano e si ricongiungono alle critiche alla globalizzazione, in quanto progetto che punta ad egemonizzare il potere politico-economico globale attraverso il potere finanziario e le speculazioni che esso è in grado di operare in sinergia con la creazione di aree transatlantiche e transpacifiche di libero scambio.
Cosi, in linea con dette tesi, sotto i colpi della finanza speculativa, le parti più sviluppate si sviluppano sempre di più e quelle meno sviluppate implodono su se stesse sino alla crisi. Lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: le politiche di promozione e sostegno allo sviluppo possono apparire, specie ai più “efficienti”, sempre insufficienti e dispersive; se non, nel caso peggiore, vengono assimilate ad un sistema di errato assistenzialismo, che piuttosto di promuovere efficienza ed attivismo, induce un’irreversibile inedia industriale, costantemente in attesa della prossima tranche di aiuti dovuti in nome della solidarietà. Ciò, occorre riconoscerlo, è talvolta già avvenuto proprio da noi con la stessa Cassa del Mezzogiorno. E simili sentimenti sono stati nutriti qua e là in Europa nel corso della crisi greca. Ma, non si tratta di assistenzialismo soltanto; occorre ammettere con onestà l’esistenza di cause che privano i territori in crisi di disponibilità, di strumenti concreti e di  auto-responsabilità  nella gestione delle situazioni avverse che essi stessi non hanno contribuito a determinare.
Guardando invece una mappa monetaria a livello globale insieme ai dati quantitativi delle riserve circolanti si nota la scarsa significatività dell’euro rispetto al dollaro e qualora le tesi complottiste avessero un minimo di fondamento allora “la guerra delle valute” non sarebbe neanche da combattere, perché è già stata perduta. Ciò appare evidente anche perché una eventuale leadership europea presupporrebbe non soltanto “capacità di testa”, che innegabilmente vi sono, ma anche di “cuore”, che altrettanto innegabilmente non sono affatto emerse nel corso della crisi greca; in cui un intervento sostanziale in fase iniziale avrebbe certamente evitata o comunque mitigata la crisi stessa. Abbiamo assistito, invece, ad esiti in cui – secondo autorevolissimi pareri di politici nazionali – le diverse tranche di aiuti erogate dall’Europa alla Grecia non sono andate affatto a sostenere la crisi del Popolo Greco, ma sono servite ad erogare gli interessi maturati sul debito greco per effetto degli alti tassi di interesse indotti finanziariamente.
La crisi Greca, dunque, e soprattutto il problema delle migrazioni, poi, hanno messo e stanno mettendo a dura prova la coesione dell’UE. Gli inattesi ed imprevedibili movimenti di masse di migranti rappresentano una sfida in particolare per i paesi europei a divenire promotori dello sviluppo nelle aree più remote del globo, dove masse di diseredati (3,5 miliardi, si calcola) vivono a livelli di sussistenza, con meno di due dollari al giorno, senza accesso all’acqua, all’elettricità ai servizi essenziali conformi alla dignità umana. In tutto questo, come pure nella destabilizzazione di governi “autocratici” per sostituirli con governi “democratici”, si ravvisano le cause di conflitti locali, ma pur sempre devastanti, che producono milioni di profughi a casa propria e che, insieme alla disperazione di chi cerca una condizione di vita più dignitosa, alimentano il flusso di migrazioni sotto i nostri occhi. Queste migrazioni assumono, quindi, i connotati di una sottile arma di guerra a spese dei poveri del mondo, che tra lo sfruttamento di mafie organizzate e quello di un sistema economico che li usa per esercitare una pressione negativa sui salari, fanno sì che ci si contenda e si generalizzi il lavoro precario o “poco dignitoso”, capace di offrire solo una misera sopravvivenza.
La distruzione sistematica di potenzialità industriali, in una sorta di guerra di vicinato, tra nazioni “civili” e sedicenti “amiche”, si accompagna alle restrizioni al credito da parte del mondo finanziario. Esso, piuttosto, alimenta se stesso e sfrutta le tecnologie dell’High Frequency Trading  e privo di ogni controllo da parte degli Stati nazionali, ridotti ormai al silenzio da una rete multinazionale,  ha fatto un tutt’uno di casse di risparmio, banche commerciali e banche d’investimento e d’affari, mettendo in difficoltà la vera intrapresa (agricola industriale, o dei servizi) unica creatrice di ricchezza. In questo contesto le paure autentiche, indotte o simulate, da parte dei “mercati” sui “debiti sovrani”, insieme agli strumenti finanziari derivati creati ad arte e la volatilità dei titoli, divengono strumenti di arricchimento di una élite oltre che il possibile innesco di crisi globali, mentre anche nelle società più avanzate si evidenzia una netta diminuzione del monte salari rispetto al PIL, implicante una marginalizzazione del lavoro nei processi produttivi.
In questo clima generale di depressione, si è dovuto anche assistere nei paesi colpiti, come il nostro, al triste fenomeno della disoccupazione intellettuale e giovanile. Nuove generazioni di giovani e di  laureati, speranza delle loro famiglie e dello Stato che li educano, migrano per avere un semplice lavoro che dia loro dignità. Eppure in questo clima, misere esistenze di rifugiati e migranti, divenute oggetto di sfruttamento, sono accolte dalle Regioni del Sud d’Europa che hanno i loro stessi figli senza lavoro e sempre più spesso senza futuro. E' evidente che  in tutte le economie più avanzate del mondo, ove si registra una tendenza stabilizzata di riduzione della quota salari rispetto al PIL, le classi meno abbienti plaudono ed approvano l'investimento industriale e avversano o condannano (quando non demonizzano addirittura) l'investimento finanziario. Ma, perché diminuisce la quota salari rispetto al PIL? E' forse finito il "lavoro" nel Mondo? Certamente no! Basti pensare a cosa e quanto c'è bisogno ancora da fare nel campo della protezione e salvaguardia dell'ambiente, del territorio e del mare; oppure a quanto c'è da fare nel campo della medicina e assistenza agli anziani ed ai malati; oppure a quanto c'è da fare nel campo della ricerca scientifica, in particolare sull'energia, in campo agro-alimentare, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, delle tecnologie in genere. E' evidente che il Lavoro nel Mondo non può finire! Forse possono scarseggiare le risorse, ma in questo caso si tratta di usarle in modo più razionale ed efficiente, nonché procurarle "altrove", foss'anche su altri pianeti! Allora perché la società umana, e addirittura l’Europa, vive perennemente una situazione con immensi bisogni insoddisfatti mentre appare sempre più evidente che quei bisogni si potrebbero soddisfare soltanto se il Mondo assumesse una diversa prospettiva e diversi valori. Tra questi valori, per esempio ne abbiamo perduto molti negli ultimi tempi; forse perché mentre da un lato è rimasto immutato il valore del profitto - anzi si è rafforzato al punto da diventare "profitto ad ogni costo", esso si è anche svincolato da ogni regola etica e di buona convivenza. Abbiamo tutti smarrito non solo il valore, ma addirittura la nozione di “servizio”. In pratica si vuole qui sostenere che mentre il profitto è certamente valido anche come misura dell'efficienza con cui si svolgono determinati processi produttivi, non tutto è riconducibile ad esso, poiché esistono processi che non sono inquadrabili in un contesto economico e quindi misurabili dal profitto, ma attengono piuttosto alla sfera delle necessità. Ad esempio, se un asteroide di 1 km di diametro stesse puntando dritto sulla Terra ci sarebbe qualcuno che fermerebbe i progetti di disintegrazione/deviazione di questo bolide perché non sono generatori di profitto? Dunque, il vero punto è la necessità di ritrovare un “equilibrio”, un assetto globale del nostro mondo che tronchi alle radici le minacce nuove e vecchie e ponga al centro le necessità di ogni comunità umana, senza distinzione di razza, religione dislocazione territoriale, stadio di sviluppo. Invece i tempi in cui viviamo, imbrigliati dalle “trappole” di nostra stessa creazione, ci mettono di fronte a sfide e minacce cui sembriamo non trovare risposte adeguate.
La terribile minaccia alla pace rappresentata dall'ISIS alimenta – specie in Europa bersagliata da attacchi terroristici - un clima di incertezza e di paura che fa richiedere a più voci  interventi efficaci e proporzionati per mettere i terroristi in condizione di non nuocere; interventi che possono implicare un’oggettiva restrizione delle libertà personali; un mondo ed uno stile di vita sempre più insicuro e meno “libero”.
Da più parti s’invoca un ripensamento profondo delle cause che hanno reso possibile arrivare a tanto. Ricostruire su basi più giuste le relazioni internazionali non solo in Medio Oriente è la via maestra per invertire la tendenza intrapresa verso una guerra senza fine, una guerra fatta a pezzi, il cui puzzle, qualora ricomposto, porta gli evidenti segni di una terza guerra mondiale. E’ una guerra di accaparramento e di egemonia, ma non promette nulla di buono per nessuno.
Ma, torniamo al problema dei debiti sovrani e della crisi, che oggi, a inizio 2016, in molti sostengono sia in corso di superamento.
Dal 2008 in poi, si può notare la crescita enorme del debito aggregato UE da circa il 66% del PIL  a circa il 92% (nel 2014).
Secondo una regola aurea generale dell'economia il debito fa questa fine (crescita esponenziale)  quando il tasso percentuale di crescita reale è inferiore al tasso reale di interesse pagato sul debito. In sostanza, se cresce esponenzialmente il debito (per interessi o per sua vera espansione), o cresce in maniera altrettanto esponenziale il PIL oppure si è condannati “ciclicamente” alla crisi dei debiti sovrani, che abbiamo già vissuto.
Ergo, nell’ipotesi di una maggiore integrazione politica, tutta la UE è in condizioni di insostenibilità del debito? Il problema si risolve con l'austerità o con la crescita? Le risorse del pianeta sono in grado di sopportare i ritmi di crescita tenuti sinora? Il mondo globalizzato può tollerare che crescano ancora i paesi avanzati o deve spingere in su e sollevare chi è rimasto indietro? Chi nell'attuale classe politica Italiana, Europea e Mondiale è in grado di risolvere questo problema? I debiti vanno rimessi come recita la nostra Preghiera per eccellenza?
Sono questi gli interrogativi di fondo a cui si attende risposta per poter individuare una soluzione ai problemi che affliggono oggi l’Europa e quella parte di mondo che guarda ad essa con speranza.
Sembra quasi di essere condannati a risolvere un dilemma posto da un’impertinente sibilla ai viandanti che in questo mondo hanno l’avventura di imbattersi in lei: l’Europa.
La soluzione è la “decrescita felice” che alcuni propongono e che scontenta una grande fetta dell’umanità, la quale continua a puntare alla crescita di se stessa ben sapendo che è possibile solo se crescono anche gli altri (mettendo mano a tutte le risorse disponibili), oppure è giunto il momento di un cambio di paradigma che porti a un nuovo modello di sviluppo sostenibile globalmente?
Con un grossolano paragone si potrebbe dire che il PIL rappresenta per un Paese ciò che il fatturato rappresenta per un'impresa, quindi - dedotte le spese - il flusso di cassa . Ma, allora non dovremmo assumere a riferimento per ciascun Paese, sulla falsariga di quanto si fa anche per le imprese, un conto economico ed uno stato patrimoniale, che valorizzi ogni singolo pezzo del patrimonio nazionale e tutto quanto già realizzato in termini di infrastrutture, bellezze artistiche, paesaggistiche e naturali, sostenibilità e qualità della vita?
Per tutto questo non è forse necessario un nuovo modello di sviluppo sostenibile che pur senza togliere il suo valore al PIL , valorizzi anche altri parametri?
Il Magistero Petrino avvertiva già qualche anno fa : <<Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni della loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale>> (D.Petti – Dialogo sulla Politica con Benedetto XVI – 2013 – Lateran University Press).
Grexit, Brexit, Fixit, sono acronimi dei media che esprimono, insieme ai movimenti politici esplicitamente critici versi questa Europa e a quelli antieuropeisti (vedi Polonia, ma non solo), un fermento di cambiamento che appare improcrastinabile.
Ma, sorgono dubbi che gli stessi centri nevralgici dell’Europa non propendano per un cambiamento e l’Unione appare condannata ad una stasi lacerante, che sta compromettendo la sua stessa sopravvivenza e la  sopravvivenza pacifica del globo.
Si è spesso sostenuto che l’Europa è apportatrice di pace. E i Popoli Europei s’interrogano ormai anche su questo.
Basta guardare i conflitti più recenti in Europa e nel Mediterraneo: l’Ucraina, con la riaccensione degli storici antagonismi USA – Russia; la Libia, con l’intervento francese (con ammiccamenti inglesi) e la rottura del locale monopolio nostrano sull’energia; la Siria , dove si potrebbe usare il monito : “guai a coloro che non si piegano”; lo storico conflitto tra Turchia e Cipro;  lo storico conflitto dell’Area Balcanica (ex Jugoslavia); ora l’ ISIS non più solo nelle zone rivierasche del Nord-Africa, ma nel cuore stesso dell’Europa.
E allora: l’Europa è veramente apportatrice di pace?
Per tutte queste ragioni, ma particolarmente per quest’ultima, si ripropone qui di seguito una vecchia tesi sull’Europa. Si tratta di una tesi in "Storia della civiltà e dell'idea d'Europa" proposta  nell’anno accademico 1980/81, alla conclusione di due anni di corso della SCUOLA POST-UNIVERSITARIA DI PERFEZIONAMENTO IN STUDI EUROPEI presso l’ISTITUTO A. DE GASPERI di Roma (in via Poli, 29). Con essa, a quel tempo, si è inteso indagare sull'Europa e le idee ad essa sottostanti che, in termini problematici, apparivano analizzabili come il risultato di un processo dinamico evolutivo, storicamente imposto dal periodo post bellico e che appariva un elemento di accelerazione di un monopolarismo globale da realizzare; ma, allo stesso tempo s’incuneava come elemento dirompente tra bi/pluri-polarismi in atto o già realizzati.
La tesi viene riproposta sia perché di grande attualità, sia perché già individuava elementi dinamici evolutivi che lasciavano prefigurare, in un sistema multi-polare, i grossi blocchi (per es. cinese e islamico) che avrebbero potuto ri-bilanciare l’allora imperante bipolarismo incentrato su USA-URSS. Evoluzione, questa, che sarebbe avvenuta non senza rischi di conflittualità nelle periferie all’intorno dei diversi “centri polari”. In particolare, viene sottolineato, come l’Europa, con le proprie scelte e la propria riconfigurazione politica, avrebbe determinato comunque frizioni conflittuali. Ragion per cui l’idea di Europa non poteva che ridursi a strumento tipico ideale, per aggregare aree sempre più ampie, a servizio di un monopolarismo da realizzare.
Se questa tesi potrà essere convincente al punto da essere ritenuta “vera” non sarà più possibile ignorare ulteriormente le conseguenze cui conduce, specie nell’area mediterranea, che dovrà necessariamente proiettarsi verso l’Africa e il Medio Oriente in un ruolo “aggregante” in vista dell’obiettivo finale.
(Per eventuali approfondimenti del caso “Una vecchia tesi sull’Europa” è disponibile in rete al seguente link:http://www.bioacademyonline.eu/files/europa.pdf) Ma la strada intrapresa, invece, sembra un’altra  Continuiamo l’analisi qui di seguito.

3.       SOMETHING FOR US

Rinomate Agenzie di Stampa nazionali titolavano proprio agli inizi di maggio 2016 “Ttip: Greenpeace svela: “Usa tentano di colpire tutele salute Ue - Nell'ambito del libero scambio di merci, servizi e investimenti fra i due lati dell'Atlantico”. Ciò accade mentre in una certa parte del laicato cattolico italiano va sempre più diffondendosi un sommerso dibattito (che viene sommariamente riportato nel seguito nelle sue diverse interpretazioni) sulle azioni in atto tra USA e UE per il TTIP (Trattato di Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti), un’area di libero scambio tra l’UE e gli USA.
Come di consueto non si registrano posizioni uniformi. Tra variegate posizioni c’è chi esprime tutta la contrarietà possibile ad un simile trattato che definisce non solo nefasto per la democrazia, ma soprattutto uno degli ultimi tasselli di un piano che è iniziato molto tempo fa, allorquando , Brzezinski,  colui che viene considerato un ideatore e co-fondatore della Commissione trilaterale, scrisse quanto segue nel suo libro del 1971 “Tra due età: il ruolo degli Stati Uniti nell’era tecnotronica”  :
La Nazione-Stato come unità fondamentale della vita dell’uomo organizzata ha cessato di essere la principale forza creativa: Le banche internazionali e le corporazioni transnazionali sono ‘ora’ attori e pianificatori nei termini in cui un tempo erano attribuiti i concetti politici di stato-nazione”.

A)   Un’aperta interpretazione avversa al TTIP
S’interpreta così, che ciò che si vuole è un mondo governato dalle banche e dalle corporazioni transnazionali, una vera e propria dittatura del capitale; e si ritiene che questo è quello che veramente sta succedendo.
Posizioni di tal genere sono rafforzate da pareri di altro livello e statura come quelli del premio Nobel per l'economia Stiglitz quando afferma : "Io spero che i cittadini dell’Europa rispondano con un sonoro no”. In pratica questi che un tempo si chiamavano “accordi di libero scambio” oggi sono sempre più spesso considerati “partnership”. Ma non si tratta di partnership ritenute eque, perché gli Usa sembra dettino effettivamente i termini.
 "Tali accordi", prosegue Stiglitz, "vanno ben oltre il commercio, regolano gli investimenti e la proprietà intellettuale e impongono cambiamenti fondamentali nel quadro normativo, giudiziario e legale dei Paesi, senza il contributo o il supporto da parte delle istituzioni democratiche”. Quella che è ritenuta, forse, la parte più odiosa – e disonesta – di tali accordi riguarda la protezione degli investitori. Gli investitori che vogliono proteggersi possono acquistare un’assicurazione dalla Multilateral Investment Guarantee Agency, una società affiliata della Banca Mondiale, mentre gli Stati Uniti e gli altri governi forniscono una simile assicurazione. Tuttavia, gli Usa richiedono misure simili nel TPP, anche se molti dei loro “partner” hanno protezioni sulla proprietà e sistemi giudiziari che sono buoni quanto le loro. Lo scopo reale di tali misure è inteso come ad ostacolare la salute, l’ambiente, la sicurezza, e, sì, anche le norme finanziarie vengono intese a proteggere l’economia e i cittadini americani. Le società possono citare in giudizio i governi al fine di ottenere un risarcimento per un qualunque calo dei profitti stimati in futuro, derivante da cambiamenti normativi.”
Non sembra solo una possibilità teorica. Si racconta, infatti, come Philip Morris abbia intentato causa all’Uruguay e all’Australia per le loro politiche antifumo. A dire il vero, entrambi i Paesi sono andati poco più lontani degli Stati Uniti, imponendo di includere immagini grafiche che mostrano le conseguenze del fumo. Il processo di etichettatura è all’opera. E sta dissuadendo dal fumare. Così ora Philip Morris sembra chiedere di essere risarcito per il calo degli utili.
 In futuro, prosegue il premio Nobel Stiglitz, se scopriamo che qualche altro prodotto causa problemi di salute (pensiamo all’amianto), piuttosto che far fronte a denunce per i costi imposti, il produttore potrebbe citare in giudizio i governi per averlo trattenuto dall’uccidere più persone. La stessa cosa può accadere se i nostri governi impongono norme più ferree per proteggerci dall’impatto delle emissioni di gas serra.
 Fondamentale per il sistema di governo americano è una magistratura pubblica imparziale, con norme legali costruite nei decenni, basate su principi di trasparenza, sul precedente e sulla possibilità di presentare appello contro le decisioni sfavorevoli. Tutto ciò viene messo da parte, dal momento che i nuovi accordi richiedono arbitrati privati, non trasparenti e molto costosi.
Inoltre, tale accordo è spesso pieno di conflitti di interesse; ad esempio, i mediatori possono essere un “giudice” in un caso e un difensore in un caso correlato. I procedimenti sono così costosi che l’Uruguay si è dovuto rivolgere a Michael Bloomberg e ad altri americani ricchi, attivi nel settore della salute, per difendersi da Philip Morris. E, anche se le società possono intentare causa, altri non possono. Se c’è una violazione di altre responsabilità – sul lavoro e sulle norme ambientali, ad esempio – cittadini, sindacati e organizzazioni della società civile non possono presentare ricorso.
“Se mai ci fosse un meccanismo di risoluzione delle controversie unilaterale che viola i principi base, è proprio questo. Ecco perché mi sono unito anch’io ai più importanti esperti legali statunitensi, provenienti da Harvard, Yale e Berkeley, nello scrivere una lettera al Presidente Barack Obama che spiega quanto sono dannosi questi accordi per il sistema giudiziario. Se ci fosse bisogno di una migliore protezione della proprietà, e se tale meccanismo di risoluzione delle controversie, costoso e privato, fosse superiore alla magistratura pubblica, dovremmo cambiare la legge non solo per le società estere benestanti, ma anche per i nostri stessi cittadini e per le piccole imprese. Ma non c’è stata alcuna proposta a riguardo. La domanda è se dobbiamo consentire alle ricche aziende di utilizzare misure nascoste nei cosiddetti accordi commerciali per prescrivere come vivremo nel ventunesimo secolo. Io spero che i cittadini degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’Asia Pacifico rispondano con un sonoro no”. conclude Stiglitz.
Questo tipo di interpretazione non può che condurre a un esplicito NO AL TTIP !

B)   Interpretazioni diverse, ma altrettanto preoccupate
Queste interpretazioni diverse, ma altrettanto preoccupate, non entrano tanto nel merito delle scelte di politica economica su cui ci si può legittimamente dividere (per es. dibattito tra keynesiani e monetaristi, pregi e limiti di economie chiuse ed economie aperte, ecc.) quanto si fondano sul quadro istituzionale entro il quale tali cambiamenti avvengono e sul quale pochi tendono a porre attenzione.
Posto che in pochi pensano al TTIP, la maggior parte di coloro che se ne occupano sembra che ponga più attenzione su costi e benefici immediati (chi ci perde e chi ci guadagna) che sul profondo impatto che esso potrà avere sul futuro della democrazia.
Così come “La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva( S. Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle scienze sociali, 27 aprile 2001 )" ma dipende dall'uso che se ne fa, così il TTIP, appare presentare rischi e opportunità.
Così come è strutturato in partenza, tuttavia, i rischi appaiono superiori alle opportunità in quanto, come è successo per il fiscal compact, ossia il Il trattato europeo sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria”, firmato in occasione del Consiglio europeo dell’1-2 marzo 2012  (cfr. http://leg16.camera.it/465?area=8&tema=744&Trattato+Fiscal+Compact  ), anche con il TTIP, stando alle versioni disponibili, vengono spossessati di ogni decisione (salvo la ratifica iniziale) i Parlamenti, cioè gli organismi che (nel bene o nel male) dovrebbero invece incarnare la sovranità popolare.
In questa interpretazione si ammette che sicuramente esiste un problema di costi, di efficienza e di efficacia da affrontare nei parlamenti, ma si ritiene che i mass media negli ultimi anni si siano prestati e continuino a prestarsi ad una campagna di demolizione dell'immagine di tali istituzioni proprio per aprire la strada alla presunta "efficienza" di organismi tecnocratici (che saranno efficienti ma molto meno trasparenti e partecipati dei parlamenti).
Anche agli osservatori più critici (e più illustri) sul TTIP sembra sfuggire il problema della creazione di un meccanismo che si potrebbe adottare in futuro per gli atti di portata normativa che vincoleranno gli Stati  senza che intervenga alcuna decisione parlamentare. Quindi, senza volersi pronunciare sul fatto se il TTIP sia foriero o meno  di opportunità analoghe a quelle che si aprirono in Europa col mercato unico - sancito col Trattato CEE del 1957 ma in pratica rilanciato col "Libro bianco sul completamento del mercato interno" di Delors del 1985 - qui si vuole sottolinearne la differenza con il processo di costruzione del mercato interno della CEE, che richiese centinaia di atti legislativi europei (regolamenti ma, soprattutto, direttive) co-decisi dal Parlamento europeo mentre gli atti normativi applicativi del TTIP (modifiche degli allegati, ecc.) saranno decisi da organismi tecnici che non risponderanno ad alcun parlamento nazionale, europeo o transatlantico.

C )   Necessità di entrare nel merito
In merito al TTIP si afferma che sia incontrovertibile che la creazione di un’area di libero scambio si accompagni con una crescita dei commerci e una conseguente crescita del PIL. Ma questo è sempre vero? Ad alcuni pare che le aree di libero scambio non siano di per se stesse portatrici di crescita, se non a certe condizioni, (per es. il PIL italiano, infatti, e non solo, è fortemente diminuito in UE!).
Per quanto possa convenire all'Italia nelle attuali contingenze, l'implicito obiettivo del TTIP sembra essere la parità dell'Euro con il Dollaro, cosa  non accettabile da coloro che vogliono un Euro "forte". Quindi, in aree di libero scambio e con valuta comune non è detto che "una crescita dei commerci" abbia come conseguenza una crescita del PIL; almeno per le seguenti ragioni :
1) Nelle economie aperte il PIL aumenta per effetto commercio solo se è il saldo positivo (export meno import)  con l'estero ad aumentare (vedi Germania in UE) e sempre di più si comprende che è necessario porre un limite a tale saldo in aree a valuta comune perché può divenire strumento di politiche aggressive delle economie più forti verso quelle più deboli. Ma c'è un vincolo in tal senso nel TTIP? Oppure c'è garanzia di libera fluttuazione di cambi Euro/Dollaro? E in caso affermativo chi gestirebbe questa politica, la BCE che non è una vera e propria banca centrale di un Superstato Europeo che ancora non esiste?
2) Occorre ricordare che la teoria monetaria moderna ci dice che un deficit di bilancio significa ricchezza che lo stato immette verso il settore privato, mentre un surplus di bilancio significa ricchezza che lo stato ritira dal settore privato. Quindi il pareggio di bilancio introdotto in costituzione significa che il nostro settore privato non deve più crescere in ricchezza. Se come accade in UE si pone un limite del 3% all'inflazione e un limite del 3% al deficit di bilancio, ciò equivale a dire che si sta pianificando una crescita zero in termini reali. In queste condizioni la competitività relativa dei paesi a libero scambio e valuta comune (o tendenti alla parità) aumenta solo se ci si mantiene molto al disotto dei limiti di inflazione imposti (nel nostro caso << + 3%)  mentre per i limiti di deficit sul  bilancio ci si pone sempre all'estremo superiore del limite (anche qui = + 3%).
E' proprio per non aver saputo fare questo "gioco"   nel corso di 15 anni, cosa che invece ha saputo fare molto bene la Germania, che l’economia italiana (insieme alle circostanze di un Euro forte) ha perso competitività (per effetto di inflazione differenziale) ed è regredita in occasione di una crisi internazionale che ha funzionato da innesco, ma che rischia di divenire strutturale e finalizzata alla decrescita, nel tentativo estremo di riportare - nel migliore dei casi - equilibrio tra i paesi della Terra e nell'utilizzo delle risorse ambientali di cui il consumismo ha abusato. Tutto ciò è in qualche modo impostato, evidenziato e governato nel TTIP? E poi, quali strumenti avremmo nella presente situazione"? La realtà che appare a molti è : "Guai ai vinti!" (vedi http://www.interris.it/2016/02/12/85647/intervento/85647.html ) .
3) Infine se fosse vero che l'implicito obiettivo del TTIP è la parità dell'Euro con il Dollaro, prima di attivare nuove aree di libero scambio, non dovremmo aver ben studiato il Ciclo di Frenkel, che taluni invocano come elemento di disfunzione della stessa UE? Ma questi sono compiti eminentemente politici e noi non siamo che marginali rispetto ad essa: la politica che conta!
Insomma, c'è da chiedersi se il TTIP  verso l'UE non sia un modello aggregativo finalizzato al piano di un "governo mondiale unico", che se da un lato è strumento per la costruzione del "Regno", dall'altro può essere garanzia di Giustizia e di Pace solo dipendentemente dagli orientamenti di chi ne sarà il "il Re"; e ad oggi non è automatico che il "Re" sarà un "re buono ed illuminato".

D) In conclusione:
Sono proprio le previsioni del vecchio Brzezinski che osserva un’EU inconcludente e ancora ferma su vecchi schemi e teorizza ormai un nuovo assetto “bipolare-plus” (G-2 plus : USA-CINA più altre economie marginali, EU e Russia comprese tra esse) che ci avverte :
“Gli Stati Uniti non sono più una potenza assoluta anche se mantengono il dominio del cielo, del mare e della terra. Per ora. Tuttavia, la supremazia americana si è indebolita, in virtù dell’emergere di nuovi player geopolitici che, almeno a livello regionale, iniziano a tenerle testa.” (Leggi tutto: http://it.sputniknews.com/mondo/20160502/2590481/america-usa-declino-brzezinski.html#ixzz47WH96Ylz ).
I social media sono divenuti strumento per costituire fascicoli ben precisi sull’orientamento di organismi sociali e individuali, e i maggior utenti a tale riguardo sembrano essere USA e INDIA.
Forti di ciò, sull’altro lato dell’Atlantico ci si interroga sulla percezione degli USA nel Mondo e aldilà della Gran Bretagna che viene considerato il miglior alleato degli Stati Uniti, la Germania e l’Italia, con le proprie forti relazioni con la Russia sono viste come problematiche, perché portano acqua al mulino di chi non può divenire, secondo Brzezinski, centro polare in Eurasia. In ogni caso, poiché in Italia sembra che il 66% sia sempre favorevole agli USA e piuttosto che subire di nuovo la penalizzazione di un euro sopravvalutato c’è chi fa affidamento che il Paese opterebbe più volentieri per divenire parte di una 51esima stelletta – pur se marginale e dislocata - della bandiera americana. Tutto ciò accade mentre in Italia un esercito di 2,5 milioni di giovani (prevalentemente laureati e diplomati) sono disoccupati ed in parallelo magnati cinesi – facendo dumping ambientale e sui diritti umani - portano annualmente migliaia di propri dipendenti in vacanza in Europa pagandone i costi e consolidando le basi del consenso interno della politica espansiva cinese.
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare! Ma, …

4.       IL PROBLEMA DEMOGRAFICO E LA RESPONSABILITA’ GLOBALE DI AFFRONTARLO

Papa Francesco in un certo momento del suo pontificato aveva iniziato ad affrontate più in concreto il tema della paternità consapevole; ma al laicato in ascolto è parso solo un breve e sfuggente cenno. Quindi la domanda si pone di necessità : “SIAMO VERAMENTE CONSAPEVOLI DELLA DRAMMATICITÀ DEL PROBLEMA DEMOGRAFICO MONDIALE?”.
Recentissimi studi dimostrano che l'attesa stabilizzazione della popolazione mondiale è molto controversa e anzi entro questo secolo con probabilità intorno all'80% la popolazione mondiale raggiungerà un totale compreso tra 9,5 e 11 miliardi di persone.
Si pone quindi un problema di sostenibilità per le risorse idriche, energetiche, ambientali e finanziarie che può condurre a compromettere la vita sul pianeta e portare alla povertà generalizzata, se non vengono intrapresi adeguati provvedimenti immediati, visto che 3,5 miliardi vivono già con 2 dollari al giorno, non hanno accesso all'acqua e all'elettricità se non in modo molto limitato o niente affatto.
Le migrazioni verso paesi più sviluppati non risolvono per nulla il problema poiché ai tassi di crescita attuali le migrazioni possono mitigare, quindi assorbire, al più 15 milioni di nuovi poveri, mentre ogni anno si aggiungono alla popolazione mondiale più povera dai 50 ai 60 milioni di nuovi poveri.
In modo visivo e immediatamente comprensibile nulla può spiegare meglio del seguente video. l'attuale drammatica situazione: https://www.youtube.com/watch?v=LPjzfGChGlE  .

5.       CHIESA E GLOBALIZZAZIONE - La Profezia di Francesco :"Noi siamo profeti di un futuro che  non ci appartiene"

Un saggio di Gennaro Acquaviva su “Mondoperaio” del 1/2016 ci parla de "La profezia di Francesco", sostenendo che "Era la stessa tradizione gesuita incarnata nel nuovo Papa ad indicare implicitamente a tutti che egli era di fronte al compito di riguardare il primato petrino incarnato nel Vescovo di Roma con gli occhi dell’universalismo e della modernità".
Il saggio ci ricorda alcune espressioni chiave del Papa:
“Dobbiamo tornare al Vangelo, perché la Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”;“Niente di ciò che facciamo è completo. Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa. Nessuna meta né obiettivo raggiunge la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno nasceranno. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene”.
Il saggio è la premessa per analizzare le "conseguenze che la incessante predicazione di questo Papa, e la sua azione pastorale e missionaria, hanno innescato nella condizione spirituale dell’umanità. Come tutti abbiamo potuto constatare si è trattato di un’azione straordinariamente diffusa, collocata in una dimensione aperta a tutti gli uomini, e che ha visto prevalere in Francesco la figura di pastore e di guida spirituale dell’umanità intera assai più che quella di Primate della Chiesa cattolica romana.".
L'analisi che ne consegue è sviluppata in alcuni saggi e riportata nel dossier >>> pietro e francesco di "Mondoperaio" 5/2016. (vedi link  http://roccomorelli.blogspot.it/2016/05/chiesa-e-globalizzazione-la-profezia-di.html ).
L’analisi storica individua chiaramente un’antica ed odierna tendenza universalista del mondo cattolico guidato da Francesco che è materia di attenta riflessione, nel mondo occidentale in particolare, al pari della citazione precedentemente riportata di  Benedetto XVI: <<Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni della loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale>>.
Tutto ciò si prospetta nell’ambito dell’irrisolto apparente antagonismo tra universalismo  e particolarismo nazionale. Il primo, intrinseco alla nozione stessa di cattolicesimo e caratteristico già di una parte del giudaismo pre-cristiano, e il secondo, retaggio più recente della formazione degli stati nazionali che sembrano rappresentare un passo obbligato verso l’ecumenismo cattolico e, più in concreto, verso una unificazione dell’ecumene sempre più prossima, aldilà dei processi pacifici o conflittuali sottostanti.

CONCLUSIONI

Un cambio di paradigma nelle relazioni umane e internazionali si frappone lungo le vie dell’uomo di oggi. Il mutamento è dettato dalla consapevolezza che ogni frazione è parte di un tutto dove le singole libertà appaiono  sempre più limitate dalle altrui libertà in un sistema in via di integrazione presumibilmente irreversibile. L’esigenza di richiudersi nuovamente entro i propri autonomi confini è dettata dalle difficoltà evidenti che l’integrazione sta incontrando tra egoismi e interessi  di parte.

Non possediamo singolarmente verità intangibili ed immutabili;  solo il dialogo con e verso l’altro sembra poter apportare comprensione; solo la solidarietà sembra capace di riavviare la crescita; solo la volontà sembra poter mantenere la pace necessaria ad ogni ulteriore sviluppo , nella consapevolezza che un comune destino lega indissolubilmente l’intero genere umano.

In alternativa non vi è che il conflitto, che necessariamente sfocia nel ricorso alla forza e al confronto delle potenze in gioco, con il rischio di un annientamento senza vincitori né vinti e l’impossibilità di migrare altrove perché siamo tutti legati al destino di questa unica e sola Madre Terra. 

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