mercoledì 20 gennaio 2016

MANGIARE : Un esercizio spirituale (Un breve saggio di J. P. Hernández SJ)

E' riportato qui di seguito - per gentile concessione dell'autore - un breve saggio di spiritualità cristiana dal titolo "MANGIARE : Un esercizio spirituale" di J. P. Hernández SJ - Cappellano dell'Università La Sapienza di Roma . 

Una commovente analisi che sottolinea la permanente comunione con il Creato ed il suo Creatore attraverso il SUO FIGLIO REDENTORE.

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Mangiare: un esercizio spirituale

1.            L’atto del mangiare è la prima trasgressione volontaria di quel limite invalicabile e sacro che è la nostra pelle, il confine del nostro corpo. Perciò nella storia delle civiltà il mangiare è stato man mano codificato e spesso anche legato al sacro o al tabù, così come le altre “trasgressioni” della barriera “corpo”: la sessualità, le escrezioni,… Proprio perché introduce in noi un oggetto estraneo  il mangiare costituisce sempre un rischio, un pericolo per il nostro corpo. Ciò che mi dà la vita potrebbe anche uccidermi. Nell’atto del mangiare mi accorgo che per vivere ho bisogno di rischiare di morire. Perciò il mangiare è un atto di estrema fiducia. Per vivere mi devo fidare di qualcosa che non sono io. Il mangiare è un costante esercizio che ci riporta alla fiducia primordiale che è vivere.
2.            Perciò mangiare è sempre dire “Sono vivo”. Quando il malato terminale rinuncia a mangiare, ha finito di voler vivere. Quando il Risorto appare ai discepoli chiede loro se hanno qualcosa da mangiare (cf. Gv 21,5). “Mangio dunque ci sono”.
3.            Ma non mangio qualsiasi cosa. Il cibo può essere medicina o veleno. Questa ambivalenza è stata messa in luce fin dalle più antiche mitologie. Persefone imprudente, assaggiando negli inferi il “cibo dei morti”, rimane per sempre legata alla morte. D’altronde anche nella Bibbia, il primo mangiare di Adamo ed Eva si rivela “veleno mortale”; non a caso fu suggerito da un serpente.  Il mangiare è dunque sì un atto di fiducia ma è soprattutto un luogo di conoscenza e di scelta. Mangiare significa distinguere  per scegliere ciò che è “buono” e lasciare ciò che “non è buono”. “Buono” per me e buono forse anche per altri. Per l’adulto, il mangiare è un atto “politico”. Scegliendo cosa mangiare esprimo consapevolmente o meno le mie opzioni economiche, le mie idee di giustizia e di bene. Per il neonato il mangiare è la prima e primordiale relazione attiva con ciò che sta fuori da sé. Si può dire che il neonato “mangia il mondo”, e inizia così a conoscerlo e a conoscersi. Il “sapore” diventa il primo “sapere”.
4.            “Dimmi come mangi e ti dirò chi sei” dice l’adagio. La tavola è una immagine del mondo e il mio rapporto al cibo rivela il mio rapporto alla vita, agli altri, alle cose, a me stesso. Posso mangiare in silenzio e osservando gli altri, posso mangiare in fretta trangugiando, posso assaporare con calma, posso eccedere, controllarmi, lasciare all’altro il pezzo migliore, rallegrarmi del piacere altrui,… Sono tutti atteggiamenti che mi tradiscono e che fondamentalmente si situano fra due poli: il mangiare come chi ruba ciò che gli è vietato e il mangiare come chi riceve con gratitudine. Nella Bibbia questi due atteggiamenti corrispondono rispettivamente al peccato di Adamo ed Eva e all’eucaristia. Si può dire che la Bibbia è un cammino fra l’albero del peccato e l’eucaristia, cioè un cammino di purificazione e capovolgimento del nostro modo di “mangiare il mondo”.
5.            Mangiare è riconoscere che ho bisogno di qualcosa al di fuori di me per poter vivere. Vale a dire è riconoscere che non sono autosufficiente ma che ho un limite, un confine: ho la “debolezza” di “dover” mangiare. Perciò quando mangio da solo e qualcun’altro inizia a guardarmi mi sento a disagio, deglutisco in fretta. E capita che offro da mangiare all’osservatore. Non tanto per generosità quanto per non essere solo a mangiare. Se egli rifiuta, è come se mi dicesse che lui non ha questa debolezza e allora io mi sento ancora più a disagio. Se invece l’osservatore accetta, allora confessa anche lui di non essere autosufficiente. E il nostro mangiare insieme diventa il confessare reciprocamente il proprio limite. Il mangiare insieme è la celebrazione del limite come condizione della relazione. Perciò è un piacere, e porta a curare il piacere dell’altro, anzi ad aver piacere al suo piacere. Non a caso in molti popoli la comunione di tavola è rigidamente regolamentata perché è in effetti una attività molto intima: si condivide il proprio limite e ci si fa piacere a vicenda.
6.            Mangiando confessiamo di non essere “tutto”, cioè di non essere Dio. Un Dio per definizione non mangia, è autosufficiente. Ma il Dio del Nuovo Testamento, pur di entrare in relazione con l’uomo, si fa limitato, cioè mangia. Perciò il “limite di Dio”, cioè il suo mangiare, diventa la comunione fra Dio e l’uomo. Gesù è la storia di quel Dio che diventò “non-Dio” per trasformare il limite dell’uomo in incontro con Dio. Perciò di Lui si disse che era “un mangione e un beone” (Lc 7,34), un “rabbi che amava i banchetti” (Enzo Bianchi). E’ interessante ricordare che da molti secoli il sacrificio ebraico era implicitamente una richiesta a Dio di venire a mangiare con l’uomo. L’offerente mangiava la carne mentre a Dio veniva riservato il sangue e il grasso. Vale a dire: l’uomo e Dio mangiano cose diverse e in luoghi separati ma al contempo. La segreta speranza che un giorno uomo e Dio mangeranno insieme è realizzata da Cristo.
7.            Insistendo sull’immagine di Gesù a tavola, i vangeli lo presentano come il Messia che realizza il banchetto finale che Israele aspettava per la fine dei tempi (cf. Is 25), il banchetto di riconciliazione.  In particolare il mangiare con i pubblicani e i peccatori è la realizzazione più esplicita di questo banchetto di riconciliazione. Gesù non chiede il pentimento o qualche altra condizione prima di mettersi a tavola con i peccatori. Ma è l’atto stesso del mettersi a tavola con loro che costituisce il perdono del peccato, l’annullamento della distanza, la comunione. Questa comunione con i peccatori sarà il motivo della sua condanna a morte. Un Dio che mangia con i peccatori è già un Dio che muore per i peccatori. Perché chi entra nel limite entra nella morte. Mangiare significa “dover morire”.
8.            Anche nelle prime comunità cristiane il mangiare insieme di cristiani ebrei  e cristiani provenienti dal paganesimo fu un evento senza precedenti che non fu subito accettato facilmente (cf. At 11). Lo stesso Pietro ebbe i suoi tentennamenti (cf. Gal 2,11ss.), proprio perché mangiare insieme è in qualche modo formare una sola cosa. Ma abbastanza presto la Chiesa primitiva presenta questa “comunione di tavola” fra ebrei e pagani come la realizzazione delle promesse, l’abbattimento del muro di separazione, la presenza in terra del Regno di Dio. Ancora oggi, nelle famiglie e nelle comunità, la tavola è il luogo dove difficilmente si nascondono i conflitti e dove le relazioni non solo si rivelano ma possono anche modificarsi.
9.            Come spiega Giovanni Cucci, il mangiare, proprio perché esperienza primordiale di alterità, tocca le fibre più profonde della nostra psiche e diventa il luogo dove si manifesta il nostro “insaziabile bisogno di affetto”. In qualche modo mangiando mangiamo sempre l’altro, perché mangiamo ciò che è altro da noi. A volte basta una minima contrarietà e il nostro mangiare diventa un inghiottire, un arraffare con l’illusione di ricuperare con la bocca ciò che ci è sfuggito con gli eventi. La gola e la bulimia tradiscono un bisogno di possedere l’altro fino ad annientarlo o a inglobarlo dentro di sé. Questo bisogno di “mangiare l’altro” è legato a una paura di “essere mangiato dall’altro”, o semplicemente di “essere mangiato” tout court. Da  ciò che mi circonda, dalla vita, dal tempo. Perciò gli antichi hanno forgiato lo straordinario mito di Cronos, dio del tempo, che divora costantemente i propri figli appena vengono al mondo. Se questa è la mia immagine inconscia della vita (e forse di Dio), allora è chiaro che cercherò a mia volta di mangiare l’altro per non essere mangiato. Ma il Dio della Bibbia, vedendo che i suoi figli hanno paura di essere mangiati da Lui, si fa Lui stesso “figlio dell’uomo” e si lascia mangiare dall’uomo. Nasce a Betlehem (in ebraico “casa del pane”) ed è deposto in una “mangiatoia”, cioè nasce per essere mangiato. Poi rimane fra di noi sotto la forma del pane, cioè rimane per sempre “da mangiare”. Gesù è quel Dio che entra nel nostro peccato di gola diventandone l’oggetto. E così capovolge la gola in incontro con Lui. Il Cristo è l’unico nutrimento che trasforma il nostro modo di nutrirci. In altre parole: Gesù è quel “altro” che si dona da mangiare perché il nostro mangiare non sia più un voler “mangiare l’altro”.
10.          I Padri esprimeranno questo capovolgimento spiegando che Gesù sulla croce si fa quel frutto appeso all’albero del peccato affinché l’uomo che torna al suo peccato “mangi Cristo stesso”, cioè incontri Dio stesso. E così l’eucaristia è, come dice Giovanni Crisostomo, quel “poter mangiare di quel albero vietato perché da quando Cristo si è fatto peccato il peccato è diventato comunione”.
11.          Pierpaolo Pasolini nel suo geniale mediometraggio “La Ricotta”, in cui offre una “rappresentazione vera” della Passione, spinge la comprensione di questo paradosso fino a presentare come “figura Christi” un affamato che muore per indigestione perché in una sorta di “anti-ultima cena” ha divorato tutti gli alimenti che gli altri gli gettano con disprezzo. Assumendo il cibo di ogni disprezzo, un po’ come Gesù che sulla croce beve il nostro ultimo aceto, ha dato la vita. Mangiare è sempre assumere il modo in cui ci è stato dato il cibo.
12.          Perciò c’è comunque in ogni atto di mangiare una irriducibile esperienza di “mangiare l’altro”. Le nostre generazioni sono le prime in tutta la storia dell’umanità che hanno tagliato il legame essenziale fra chi mangia e chi ha cucinato. Nel passato era solo nell’esercito e in poche altre occasioni che si mangiava senza conoscere chi ti aveva fatto da mangiare. Nelle ultime generazioni le mense aziendali e universitarie, i fast food, i cibi già precotti,… hanno interrotto questo legame che faceva del piatto cucinato la massima espressione di un affetto. Tanto è vero che i ristoranti di lusso cercano di ricostruire artificialmente questo legame attraverso un rapporto accogliente e personale del “maitre” con il cliente. Nella storia dell’umanità, fin dalle origini, il cibo cucinato è stato per chi mangia la materializzazione dell’affetto ricevuto e per chi cucina dell’affetto dato. In molte culture è stato la madre e poi la moglie che preparano il cibo come un proseguimento di quel “dono di sé” che è il latte materno. E di fatto chi prepara il cibo investe in esso il proprio tempo, la propria energia, la propria creatività. Dal mattino presto molte madri pensano al bene dei propri cari pensando a ciò che potranno cucinare. E chi mangia quel cibo non mangia solo un alimento ma “mangia” il tempo e il “pezzo di vita” investito in esso da chi ha cucinato. In altre parole: si nutre dell’altro.  Sapendo che nell’antropologia biblica il tempo è il corpo, siamo molto vicini al “prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo…”. Nel geniale racconto di “Il pranzo di Babette” Karen Blixen e Gabriel Axel hanno saputo presentare una figura di Cristo in una donna “chef” che “sapeva trasformare un’esperienza culinaria in avventura amorosa”. In un pranzo di festa, essa ha “dato tutto” e allora quel pranzo di festa “cambia tutto”.
13.          E’ risaputa l’insistenza di molte madri nel forzare i propri figli a mangiare. Diventa a volte una perversione che traduce il voler forzare i propri figli a “essere figli”. Nel senso opposto, e a volte come reazione, il rifiuto del magiare, l’autonomia esasperata nella scelta maniacale del cibo, e in modo generale molte patologie alimentarie come l’anoressia si radicano nella difficoltà dell’essere figli. Non mangiare, e soprattutto non ricevere il mangiare, è non voler essere figlio.  Cioè non accettare che chi mi dà da mangiare dà la vita per me.
14.          Ma c’è nel mangiare una dimensione irriducibile di violenza da parte di chi mangia. Nel 1944 nasce a Londra il movimento “vegano” con l’intento, davanti alle atrocità della guerra, di sopprimere la violenza alla radice, cioè nel nostro stesso modo di mangiare. Ma questa impresa si rivela illusoria e sfocia a volte nella paranoia. Ogni nutrimento suppone l’interruzione di una vita o al meno di un processo che può sfociare in vita. Anche le diete più radicali come i fruttariani e i crudisti interrompono dei processi vitali per vivere. Si può ribadire l’assioma antropologico classico: l’uomo è sempre “homo necans”. La questione non è uccidere o non uccidere ma come viviamo noi questa consapevolezza, cioè che si muore perché io viva. Costantemente la natura sacrifica delle vite per la mia sola vita. Questo ci mette davanti all’impossibile reciprocità della nostra esistenza. Mangiare è accettare che ricevo ciò che non potrò mai ricambiare. L’eucaristia ancora una volta è la ricapitolazione di questa grande verità. Il Cristo che si dona da mangiare e a cui possiamo solo dire “grazie” (“eucharistein”) sintetizza tutte le vite date per noi che possiamo solo chiamare “grazie”. L’eucaristia è l’unico modo vero di mangiare, cioè di vivere.
15.          Nel mangiare l’uomo può attingere direttamente a questa natura che continuamente “sacrifica vite” per noi. I primi ominidi, come gli animali, hanno mangiato immediatamente le prede che hanno potuto uccidere o gli alimenti che hanno trovato sugli alberi o nei prati. Ma molto presto, probabilmente con la domesticazione del fuoco, è sorto il fenomeno del preparare gli alimenti e in particolare di cuocerli. Come ha mostrato Claude Lévy-Strauss nella sua opera magistrale “Il cotto e il crudo”, questa svolta coincide con l’invenzione della “cultura”. Fra l’uomo e la natura si pone come mediatore un altro essere umano: il cuoco. E’ un ufficio in qualche modo “sacerdotale” perché attraverso la barriera sacra del fuoco trasforma la natura in qualcosa di più adatto all’uomo (più facile da conservare, più saporito, ecc…). E’ come se il cuoco si interponesse fra la natura e l’uomo e dicesse a questo: “aspetta, fidati di me, non mangiare subito, sono io che ti darò da mangiare”. Chi fa da mangiare aggiunge il suo sacrificio personale (il suo tempo, come abbiamo visto) al grande sacrificio che la natura fa per ogni uomo. Ma così facendo il cuoco trasforma il limite dell’uomo in cultura. Nella preparazione degli alimenti, nella scelta, nel modo di presentarli si esprime un popolo, una religione, una famiglia, un’origine geografica, una classe sociale, una civiltà.
16.          Nella biochimica del cervello umano, l’atto di mangiare e di riconoscere i sapori consiste in una frenetica attività di collegamenti nervosi che collegano le nuove percezioni a percezioni passate e classificate nella memoria. Questa è probabilmente la base fisiologica che spiega il fatto che il mangiare, e in particolare il mangiare insieme, fa spesso emergere numerosi ricordi. Quante volte i discorsi a tavola si concentrano sui racconti di occasioni precedenti in cui si sono mangiate cose analoghe o collegabili. Su questa base umana, la tradizione ebraica ha elaborato il rito del memoriale della salvezza come un pasto. La cena di Pasqua, il “seder”, è in realtà un racconto. Un esercizio di memoria dove parole e sapori si intrecciano in un ordine ben preciso (“seder” significa ordine) per riportare l’israelita al momento stesso della salvezza e cambiare così il proprio presente. Come nell’esperienza della “maddalena” di Marcel Proust o come alla fine del cartone “Ratatouille”, il cibo rende presente l’uomo a un’esperienza passata e fondante che trasforma il proprio presente. Così anche la nostra eucaristia, il nostro memoriale della morte e risurrezione di Cristo, ci rende “realmente presenti” alla salvezza: “ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunciamo la tua morte nell’attesa della tua venuta” (seconda risposta dopo le parole della consacrazione). Lo stesso gesto dello “spezzare il pane” (espressione che diventa tecnica per designare l’eucaristia) diventa per i discepoli di Emmaus (Lc 24) l’essere riportati alle tante volte in cui il Cristo ha mangiato con loro e dunque diventa il gesto del riconoscimento. In questo gesto, condividere il cibo e dare la vita coincidono. Il pane spezzato è la vita spezzata che crea la comunione.
17.          Fra i tanti altri aspetti dell’alimentazione che la tradizione biblica mette in risalto ricordiamo ancora il piacere della condivisione. A Mosè viene promesso “un paese dove scorrono latte e miele” (Es 3,8). Questi due alimenti coincidono con due tappe primordiali nell’esperienza del piacere. Il latte è il primo piacere perché è il primo alimento dell’uomo. Il miele potenzia questo piacere appena il bambino si rende conto che si può mischiare il latte ad altro. La promessa di Dio è dunque il ritorno al piacere originario della vita. Ma il piacere del bambino è un piacere assolutamente autocentrato e dettato dall’istinto di sopravvivenza. Esso esclude qualsiasi altro osi desiderare lo stesso piacere. Il testo dell’Esodo precisa invece che questa terra dove scorrono latte e miele, Israele dovrà condividerla con “il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita,…” (Es 3,8), insomma con tutti i vicini di Israele che spesso sono stati i peggiori nemici. Vale a dire: il piacere promesso, il piacere dei piaceri è il piacere di condividere il piacere con il prossimo, e in particolare con il nemico. Questa è la promessa: il condividere il piacere con il nemico, cioè la guarigione profonda da ogni non-relazione. Allora ogni cibo è una promessa del piacere che va oltre a se stesso, è un pane “sovrasostanziale” come si chiede nel Padre Nostro, perché è una promessa di condivisione. Ogni cibo, come i cinque pani e due pesci, aspetta di essere condiviso per diventare per noi “cibo di vita piena” (o “eterna” come diciamo a messa).
18.          Un saggio ortodosso disse un giorno: “Sapete perché la nostra religione è la migliore? Ebbene perché è l’unica in cui si può mangiare di tutto”. Sembra quasi tipico delle tradizioni religiose l’imporre dei divieti alimentari. Nel linguaggio corrente è diventata usuale la battuta “la mia religione me lo vieta”. Questi divieti hanno spesso all’origine delle motivazioni igieniche, ma sono a volte anche un modo di distinguersi da certi culti ancestrali votati agli animali o, al contrario, di ricuperarli in questo modo. Nel passare dei secoli i divieti alimentari diventano un segno di identità di una religione in contrasto con altre, un modo specifico di delimitare il sacro dal profano, il puro dall’impuro, distinzione fondante di ogni religione. Allora proprio come superamento di ogni “religione”, è interessante leggere il seguente brano degli Atti: “Il giorno dopo, Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c'era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo.  Allora risuonò una voce che gli diceva: «Alzati, Pietro, uccidi e mangia!».  Ma Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo».  E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano»” (At 10,9-15). L’assenza di ogni divieto alimentare nel cristianesimo segna il superamento della distinzione fra sacro e profano, cioè il superamento del “religioso”. Come alla fine della Bibbia, nella Gerusalemme celeste, la città e il tempio coincidono, cioè tutto il profano diventa luogo dove incontrare Dio, così nella tovaglia presentata a Pietro, tutti i cibi sono puri, cioè sono dono di Dio e incontro con Dio.
19.          Ciò che il cristianesimo ha invece in comune con altre tradizioni religiose riguardo al cibo è la pratica del digiuno. Probabilmente perché Gesù stesso digiunò quaranta giorni nel deserto. Nella sua “Esposizione sul digiuno”, Afraate il Persiano (sec. IV) passa in rassegna tutti i digiuni della Bibbia per presentarlo come “eletto davanti a Dio, custodito in cielo come un tesoro”. Anche Efrem il Siro (sec. IV) elogia il digiuno come “tesoro aperto per i sagaci, delizia del cuore per gli istruiti, nutrimento spirituale tra i sapienti” (Inni sul digiuno, VII). Questi e altri Padri vedono il digiuno non solo come “vittoria” sulle proprie schiavitù (ciò che è comune a tutte le religioni), ma soprattutto come espressione di un “amore più forte”. E’ particolarmente bella la concezione del digiuno quaresimale che si sviluppa fra i dei Padri greci. Per loro il digiuno non serve ad “ottenere” qualcosa, ma può digiunare solo chi ha già provato il “gusto” di Dio. Cioè chi ha già fatto esperienza personale di incontro con Dio e ha già sperimentato la gioia di questo incontro. Allora il digiuno si decide all’inizio della quaresima, nella preghiera. E si chiede a Dio che ogni volta che si rinuncia a quel piacere con il gusto esterno, Dio possa ricordarci il “Suo sapore” con il “gusto interno”, cioè con la memoria spirituale. Così che quando arriverà la Pasqua e potrò finalmente  gustare di nuovo quel cibo, il suo piacere sarà il piacere del “gusto” di Dio. In questo modo i Padri collegavano l’esperienza del mangiare all’incontro intimo con Dio e così progressivamente ogni cibo diventava una variante del “sapore di Dio”.
20.          In modo analogo Sant’Ignazio di Loyola negli Esercizi Spirituali propone delle “regole sul vitto”. Il titolo spagnolo è “Reglas para ordenarse en el comer”, cioè si potrebbe dire: regole per “mettere ordine nella propria vita” a partire dal mangiare. In esse è presente la dimensione del “vincere se stessi”, come nei Padri. M aci sono altre due dimensioni particolarmente interessanti. La prima è che per Ignazio il cibo è un luogo per esercitare la propria libertà e il proprio discernimento. Non si tratta di digiunare, e nemmeno di mangiare poco, ma si tratta di scegliere liberamente ciò che “voglio e desidero” in piena libertà, cioè “senza disordine”. Il mangiare diventa così palestra della vita. Nel fondo so bene cosa mi fa bene e cosa voglio. Ma il problema è che spesso non scelgo secondo ciò che voglio ma secondo le voglie. Allora i consigli di Ignazio aiutano a camminare verso la libertà fisica che è forse la libertà più primordiale. La seconda dimensione è più “mistica”. Ignazio chiede a chi mangia di mangiare contemplando con gli occhi del cuore Gesù stesso che mangia con i suoi amici e discepoli. La comunione di tavola, ogni comunione di tavola, è così collegata  con quella comunione originaria che è quella del “rabbi che amava i banchetti”. In questo modo si associa l’esperienza del sapore all’esperienza della visione e si opera un “travaso interiore” fra i due sensi. Come per i Padri greci, ma per un’altra via, i sapori degli alimenti rimandano al piacere di vedere Gesù. Si realizza in questo modo il versetto del Salmo: “Gustate e vedete quanto è buono è il Signore” (Sal 33,9). Dove la “bontà” si vede e si assapora al contempo, e allora il sapore diventa relazione, e ogni pasto una eucaristia.

21.          La famosa frase “diventiamo ciò che mangiamo” o “l’uomo è ciò che mangia”, non fu inventata da Feuerbach come spesso si crede, anche se in tedesco il gioco di parole è particolarmente efficace (“Der Mensch ist was er isst”).  Ma è una frase vicina al pensiero di Sant’Agostino e che scrive San Leone Magno riferita all’eucaristia. Come comunità diventiamo il corpo di Cristo perché mangiamo il corpo di Cristo. Ma se continuamente scopro in ciò che mangio il dono di Dio, allora mi scopro dono di Dio.


Serie: “Le vie della Sapienza” 1


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